LA CIVILTÀ MINOICA
Nel 1899
l'archeologo inglese Arthur Evans diede inizio agli scavi del palazzo di Cnosso
a Creta, da lui identificato con il Labirinto (forse da labrys = «ascia
bipenne», simbolo cultuale) costruito, secondo leggenda, da Dedalo per il
Minotauro. Dal nome di Minosse mitico re dell'isola, Arthur Evans propose di
designare la civiltà fiorita a Creta come «minoica»; data la
sua diffusione in numerose isole dell'Egeo, ma la civiltà resta
però essenzialmente cretese.
Dallo stesso scopritore fu elaborato
per l'epoca minoica una suddivisione in tre periodi distinti con i nomi di
Antico Minoico, Medio Minoico e Tardo Minoico, ciascuno a sua volta diviso in
tre fasi indicate con i numeri romani I, II e III. Altri studiosi, poiché
ritenevano troppo astratta la divisione di Evans, fondata sugli elementi
ricavati dallo scavo stratigrafico del Palazzo di Cnosso e dall'evoluzione dello
stile della ceramica, hanno elaborato un'altra suddivisione basata sulle
ripetute distruzioni e ricostruzioni dei palazzi cretesi: periodo pre-palaziale,
proto-palaziale, tardo-palaziale, post-palaziale.
Dopo essere passata nel
Minoico Antico (III millennio a.C.) attraverso le esperienze tipiche
dell'età eneolitica e dell'età del bronzo, Creta raggiunse
notevole prosperità nel Minoico Medio (2150-1550 a.C.) e visse il suo
periodo più splendido a partire dal Medio Minoico III (1660-1550 a.C.
circa) e poi nel Tardo Minoico I e II (1550-1400 a.C.)
In un'epoca in cui
le maggiori civiltà fiorivano intorno al Mediterraneo orientale, la
civiltà cretese si basò, oltre che su attività agricole e
industriali, di caccia e di pesca, soprattutto sul commercio marittimo, grazie
alla felice posizione geografica dell'isola prossima al Peloponneso, alla
Grecia, all'Asia Minore e all'Egitto.
Secondo gli antichi, con Minosse i
Cretesi avrebbero realizzato una talassocrazia (= «dominio sul mare»,
dal greco thàlassa = «mare» e kràtos =
«dominio») nel bacino dell'Egeo. Il mito di Atene, costretta ad
inviare al Minotauro un tributo annuale di sette fanciulle e fanciulli destinati
al sacrificio, e di Teseo che vince il mostro con l'aiuto di Arianna e libera la
sua città dal servaggio, offre indicazioni sull'estensione di questo
dominio sul mare.
Sebbene l'agricoltura fosse largamente praticata,
attività come la metallurgia, l'oreficeria, l'artigianato tessile e la
ceramica, per la loro eccellenza, alimentavano un fiorente commercio di
esportazione. L'abilità dei mercanti cretesi era famosa quanto quella
degli abitanti della terra di Canaan (i Fenici). Il commercio era attivo con le
Cicladi, che si trovavano sotto il dominio cretese, con l'Egitto, l'Asia Minore,
la Siria e la Grecia. Il commercio marittimo lasciava al singolo individuo
un'autonomia molto maggiore di quanto non consentisse l'agricoltura, che nel
mondo antico, specialmente in regioni come l'Egitto dove tutto dipendeva da una
complessa regolamentazione del Nilo, imponeva un regime fortemente
accentrato.
Gli scavi archeologici hanno portato alla luce palazzi e
insediamenti minoici distribuiti su tutto il territorio (Festo, Haghia Triada,
Cnosso). Il palazzo rappresenta il fulcro di una comunità insediata nella
città e nel villaggio che si sviluppa nel territorio adiacente. È
la sede del governo e dell'amministrazione, il punto focale della vita non solo
politica, ma anche economica e religiosa. La pluralità dei palazzi induce
a pensare che ognuno di essi rappresenti il centro di un'area a sé
stante. Per lungo tempo si è creduto che la civiltà cretese non
avesse nemici; poiché non si erano ritrovate tracce di fortificazioni si
pensava che la supremazia sul mare bastasse a proteggere l'isola. Oggi non si
è più così sicuri di questa tesi, infatti sono state
rinvenute tracce di fortificazioni.
Nel palazzo, attorno ad una vasta corte
centrale sono disposti vari fabbricati destinati ad abitazione, magazzini,
servizi, ambienti ricreativi, creando una serie di terrazze, l'una sovrapposta
all'altra.
Negli affreschi sulle pareti, come nella decorazione ceramica,
si riconosce il gusto per l'arte naturalistica che ritrae scene della vita
vegetale ed animale. Signora delle fiere e della natura è la
Pòtnia, la divinità femminile per eccellenza, la terra madre che
incarna lo slancio vitale e la fecondità ed estende il suo potere su
vegetali, animali, uomini. Accanto ad essa la divinità maschile funge da
paredro, ossia «compagno subalterno» (dal greco pàredros =
«che siede accanto»).
Lo Stato cretese aveva una struttura
burocratica con a capo un monarca; il sovrano non rappresentava né un
dio, né un discendente degli dei ma era rivestito della suprema
dignità sacerdotale. Il rigoroso ordinamento sociale che governava la
comunità era sorretto da un complesso sistema giuridico-amministrativo,
che prevedeva una gerarchia e un organico di funzionari con mansioni che
riguardavano l'approvvigionamento e la redistribuzione delle scorte.
Dalle
necessità della corte e dell'amministrazione nacque la scrittura cretese
dapprima ideografica, poi sillabica, la cosiddetta lineare A, i cui segni
esprimono i suoni sillabici di una lingua incomprensibile. I Micenei, che
parlavano greco, la adattarono alla propria, creando una scrittura sillabica
(cioè con segni che rappresentano di solito gruppi sillabici, ad esempio
po-ti-nija = Potnia = «signora») decifrata nel 1952. Indebolita da una
serie di terremoti, che dal 1700 a.C. sottoposero l'isola a ripetute
distruzioni, tra il 1500 e il 1400 a.C. la vita dei complessi palaziali
finì: causa prima fu forse la rovinosa eruzione del vulcano della vicina
isola di Thera, ma certamente non furono estranei a questa fine i Micenei che
conquistarono Cnosso verso la fine del XIV secolo a.C.
LA CIVILTÀ MICENEA
Nei documenti ittiti, a partire dal XIV
secolo a.C., compare menzione del Paese degli Ahhiyawa, cioè degli Achei,
coloro che, secondo i poemi omerici, partirono da tutta la Grecia alla conquista
di Troia, città dell'Anatolia nord-occidentale ubicata in una posizione
strategicamente e commercialmente importante presso gli stretti che collegavano
il Mare Egeo al Mar Nero. Questo fatto, unito alla constatazione che gli
abitanti degli insediamenti micenei parlavano un dialetto greco, autorizza ad
identificare i termini Achei e Micenei: l'uno attribuito dagli antichi, l'altro
dai moderni a popolazioni indoeuropee che scesero in Grecia poco prima del
secondo millennio a.C. e vi fecero fiorire, tra il XVI e il XII secolo a.C., la
civiltà micenea, così chiamata da Micene, il centro più
rappresentativo di tale cultura.
I Micenei, una volta giunti a Creta,
appresero la scrittura minoica (lineare A) e la adattarono alle esigenze della
loro lingua, un dialetto progenitore del greco. Il fatto che la lineare B
micenea si presenti come un adattamento della lineare A minoica propone il
problema storico dell'incontro tra Greci e Minoici. Il flusso culturale tra
Creta e il continente in un primo momento (XVI secolo a.C.) introdusse nel
Peloponneso i germi della cultura minoica, la cui influenza è evidente
nell'arte, nella religione e in molte abitudini della vita quotidiana; l'unione
con la civiltà continentale produsse la cultura originale che indichiamo
come micenea. A questo punto (XV secolo a.C.) il flusso invertì la sua
direzione e si tradusse in un breve dominio, anche politico, di un gruppo di
Achei sull'isola conquistata.
Nel 1952 l'archeologo inglese Michael Ventris
è riuscito a decifrare tavolette di argilla scritte in lineare B. La
storia di queste tavolette è curiosa: pare che si siano conservate grazie
agli incendi degli archivi dei palazzi di Cnosso, Pilo e Tebe che ne avrebbero
determinato la cottura e quindi la resistenza all'azione disgregatrice del
tempo. Si tratta di documenti amministrativi, di semplici materiali d'archivio,
registri contabili, inventari di uomini, di terreni, di derrate alimentari, di
armi. Illuminando un'organizzazione politico-sociale, un'economia, un mondo
religioso in parte diverso da quello dei poemi omerici (cui fino alla
decifrazione di Ventris era affidata la conoscenza del mondo miceneo), le
tavolette hanno dimostrato come la Grecia delle poleis, cioè delle
«città», affondi le sue radici nella Grecia dei regni micenei.
Nonostante l'evoluzione e le trasformazioni intervenute nel Medio Evo ellenico
(XII-IX secolo a.C.), l'eredità della cultura micenea non andò
perduta: le maggiori divinità venerate dai Greci sono quasi tutte
nominate già nelle tavolette micenee. L'epica antica cantò
trasfigurati i ricordi dell'età micenea, e i Greci di età classica
identificarono in quest'età eroica la prima stagione della loro
storia.
La Grecia di età micenea è frazionata in un certo
numero di principati autonomi ciascuno gravitante attorno ad un castello
fortificato, i più noti dei quali sono designati con il nome delle
rispettive roccaforti: Micene, Argo, Tirinto, Pilo.
Le dimore reali, pur
presentando analogie con i palazzi cretesi, hanno dimensioni più modeste
e una pianta più regolare, che ha al suo centro una vasta sala, detta
mégaron, sorretta da quattro colonne con il focolare in mezzo. Le
imponenti cinte di fortificazioni dei palazzi attestano il carattere guerriero
di questa civiltà, in cui Atena, la vergine guerriera rappresentata in
armi e connessa con la metallurgia, è la dea protettrice delle
acropoli.
Tra le vestigia più appariscenti della civiltà
micenea sono le tombe monumentali rinvenute a Micene dal famoso archeologo
tedesco Heinrich Schliemann (1822-1890), lo scopritore di Troia. Il tipo di
tomba più raffinato è costituito dalla tomba a cupola, tholos, in
cui un lungo corridoio conduce a una vasta sala circolare, costruita con grandi
blocchi di pietra squadrati e disposti ad anelli aggettanti l'uno sull'altro. La
«tomba di Atreo» dal nome del mitico padre di Agamennone e Menelao,
con il suo ricco corredo e la maschera d'oro sul volto del cadavere, secondo la
tradizione egizia, è l'esemplare più celebre delle nove tombe
dello stesso tipo rinvenute in questa località.
I regni micenei
della Grecia centrale e del Peloponneso si consolidano e prosperano grazie allo
sfruttamento sistematico delle risorse agricole (si deve ai Micenei che
l'appresero a loro volta dai Cretesi, l'introduzione dell'olivo in Grecia) e ad
un sistema amministrativo-burocratico fortemente centralizzato. Dalle tavolette
si ricava l'impressione che nessun settore della vita economica, sociale e
religiosa si sottragga alle direttive del palazzo, che esercita un rigido
controllo su tutto il territorio del regno grazie ad una burocrazia
capillare.
La società è decisamente gerarchica: al vertice
della piramide sociale è il wanax, che associa potere politico e
religioso, essendo sovrano e pontefice; dietro di lui c'è il
lawagiètas, «condottiero degli armati», con funzioni anche
pontificiali. Al di sotto vi è la schiera dei funzionari.
A capo di
comunità locali e autonome unite dal vincolo cultuale sono i basilewes
(basilèus in seguito sarà il termine usato per designare il re).
Il termine dàmos indica la popolazione dei distretti territoriali;
secondo alcuni studiosi il dàmos, ceto agricolo e artigianale, si oppone
al laòs, la nobiltà guerriera e fondiaria.
Le attività
produttive ci sono note attraverso le minuziose registrazioni degli scribi. Il
lavoro appare altamente specializzato. Le iscrizioni accennano a libere
professioni come il medico e l'araldo, ma citano soprattutto molti artigiani
legati alle arti della tessitura, della ceramica, della metallurgia. Sul gradino
più basso della scala sociale vi sono gli schiavi. Si tratta nel
complesso di una società in cui sono abbastanza conservati i quadri della
società degli Indoeuropei: ci sono nobili e sacerdoti, che dirigono e
sfruttano la classe produttrice del dàmos.
Tra il 1400 e il 1200
a.C. si sviluppa il commercio miceneo. Divenuti esperti marinai alla scuola dei
Cretesi, i Micenei si sostituiscono ai Cretesi stessi in tutta la vasta area del
commercio minoico. La produzione ceramica permette di individuare attraverso il
ritrovamento archeologico i percorsi dei marinai micenei; vasi di età
micenea sono stati ritrovati lungo la costa siropalestinese, in Egitto, a Cipro,
in Albania, nell'Italia peninsulare e insulare. L'espansione micenea verso
Oriente e verso Occidente rappresenta l'antefatto della colonizzazione greca; ai
Greci, ai Fenici e ai Tirreni (così i Greci chiamavano gli Etruschi)
rimasero come eredità le rotte tracciate dai commercianti micenei nel
Mediterraneo.
La civiltà micenea termina tra la fine del XIII e
l'inizio del XII secolo a.C. L'improvvisa e violenta distruzione delle
città, dei palazzi e la progressiva scomparsa degli elementi
caratteristici della cultura micenea sono stati per lungo tempo attribuiti alle
invasioni di nuove popolazioni indoeuropee di lingua greca, i Dori, che si
sarebbero stanziate nei centri prima abitati dai Micenei e poi da questi
evacuati appunto verso quest'epoca. Tale invasione è presentata in veste
mitologica come il ritorno degli Eraclidi, i discendenti di Eracle (Ercole), che
costretti ad abbandonare il Peloponneso dal re di Micene Euristeo, vi
ritornarono tra il XII e l'XI secolo a.C. È probabile che vi siano stati
altri fattori a determinare la fine della civiltà micenea: cambiamenti di
clima con conseguenze negative sulla produzione agricola e soprattutto
sconvolgimenti sociali che avrebbero indebolito e rovesciato il potere delle
caste dirigenti, logorato anche dalle continue spedizioni e guerre oltre mare
fino alle coste anatoliche e alle regioni del Mar Nero.
IL MEDIO EVO ELLENICO
Tra il XII e il IX secolo a.C., ossia tra
il mondo dei palazzi cretesi e l'affermarsi delle poleis greche ci fu un periodo
oscuro tradizionalmente noto come «Medioevo Ellenico», espressione che
vuole stabilire un'analogia con quanto si verificò in Europa con le
invasioni barbariche e il collasso degli ordinamenti dell'impero romano.
L'assenza di qualsiasi testo scritto (non viene più utilizzata la
scrittura lineare micenea), conferisce un'importanza fondamentale ai
ritrovamenti archeologici, per la ricostruzione dei processi storici di
quest'età.
Gli avvenimenti che seguirono la fine dell'età
micenea provocarono l'abbandono dei principali siti micenei, lo spostamento di
popolazioni in nuove sedi e la creazioni di nuovi habitat.
Un flusso
migratorio verso l'Asia Minore condusse i coloni greci in quelle terre d'Oriente
che erano già state frequentate dal commercio miceneo. Consistenti
comunità si insediarono nell'isola di Cipro che giocò il ruolo di
intermediario con le civiltà del Vicino Oriente. Ma quella che venne
più intensamente colonizzata fu la costa anatolica occidentale, dalla
Troade a Nord, fino all'altezza di Rodi, a Sud. Quest'area con le sue
città di Focea, Smirne, Efeso, Mileto e Alicarnasso e le isole di Lesbo,
Chio, Samo e Rodi fronteggianti la costa, divenne parte integrante della madre
patria ellenica e uno dei poli del suo sviluppo economico, civile e
culturale.
Combinando assieme dati archeologici e documentari (la poesia
epica) è possibile individuare alcune innovazioni di quest'età:
una ceramica a motivi geometrici, detta protogeometrica (fiorita tra l'XI e il X
secolo a.C.), il cui repertorio decorativo in seguito si arricchisce occupando
l'intera superficie del vaso e includendo la rappresentazione stilizzata di
figure (ceramica geometrica: IX-VIII secolo a.C.); la sostituzione a partire dal
1000 a.C. del bronzo con il ferro nella fabbricazione degli utensili; il
passaggio dal rito funebre a inumazione al rito
dell'incinerazione.
Risalgono a quest'epoca due grandi realizzazioni dello
spirito greco: l'invenzione della scrittura alfabetica e l'epica
omerica.
Con il declino della civiltà micenea il controllo del
commercio marittimo nel Mediterraneo fu assunto dai Fenici. Dai rapporti del
mondo egeo con i Fenici si determinò la ricezione da parte degli Elleni
della scrittura alfabetica.
Lo storico greco Erodoto afferma che i
«Fenici venuti con Cadmo (re leggendario) introdussero molte conoscenze,
fra le altre quella delle lettere dell'alfabeto che i Greci non possedevano
prima». Partendo dalla scrittura alfabetica fenicia, i Greci svilupparono
una grafia fonetica completa (in cui ad ogni fonema consonantico o vocalico
corrisponde un segno grafico, una lettera).
Cinque segni dell'alfabeto
fenicio, che rappresentavano suoni della lingua semitica non presenti in greco,
furono utilizzati per indicare le vocali, che la lingua fenicia non esprimeva
graficamente.
I DIALETTI GRECI INTORNO AL IX SECOLO A.C.
La storia dei dialetti greci permette di
definire a grandi linee la diffusione delle stirpi greche nell'area
egeo-mediterranea. Si distinguono quattro gruppi dialettali, che rappresentano
anche le successive ondate di invasioni: 1) il gruppo ionico-attico
(comprendente lo ionico parlato in Eubea, in parte delle Cicladi, nella regione
dell'Asia Minore che fu chiamata ionia, e l'attico parlato in Attica); 2) il
gruppo arcadico-cipriota (attestato in Arcadia, regione del Peloponneso, e a
Cipro); 3) il gruppo eolico (attestato in Tessaglia, in Beozia, nell'isola di
Lesbo e nella regione lungo la costa dell'Asia Minore detta Eolide); 4) il
gruppo dorico (comprendente il dorico parlato in parte del Peloponneso, a Creta
nella Doride in Asia Minore e, affini al dorico, i dialetti nord-occidentali
della Focide, della Locride, dell'Etolia, dell'Acarnania e dell'Epiro).
Le
varie genti (ed è questa una manifestazione sintomatica del
particolarismo greco) rimasero fedeli per secoli ai loro dialetti sviluppandone
anche varietà locali. Ionico-attico, eolico e dorico assursero a
dignità di lingue letterarie. Solo dopo Alessandro Magno (III secolo
a.C.) alle varietà dialettali venne sostituendosi una lingua unitaria a
base attica, la koiné.
ILIADE E ODISSEA
Accanto all'invenzione della scrittura
alfabetica si colloca su un uguale piano di importanza la creazione della grande
epica. L'Iliade e l'Odissea, i due poemi epici attribuiti tradizionalmente ad un
poeta cieco della Ionia di nome Omero, narrano il primo l'ira di Achille, breve
ma significativo episodio dell'assedio decennale posto dagli Achei alla
città frigia (Asia Minore) di Troia; il secondo il travagliato ritorno in
patria ad Itaca di uno degli eroi greci che avevano combattuto sotto le mura di
Troia, Ulisse (Odisseo).
Gli studiosi moderni sono ormai concordi nel
ritenere che i due poemi rappresentino le fasi più recenti di una
plurisecolare tradizione epica. Fissati per iscritto forse nell'VIII secolo a.C.
(processo cui potrebbe non essere estraneo l'intervento di una grande
personalità poetica), dietro ai poemi omerici sta un complesso di canti
affidati alla memorizzazione, e quindi alla trasmissione orale, attraverso la
recitazione di cantori specialisti (aedi e rapsodi) che si esibivano in
pubbliche narrazioni.
L'aedo Demodoco che Ulisse trova alla corte dei Feaci
è in grado di esporre a richiesta una parte a piacere dei fatti di Troia;
l'aedo deve conoscere un repertorio di leggende che fornisce gli argomenti dei
canti sugli dei e gli eroi. La memoria degli aedi è sorretta dall'uso di
formule, cioè gruppi ricorrenti di versi usati per esprimere situazioni
analoghe, e di epiteti fissi che mettono in evidenza le caratteristiche
permanenti di dei, eroi, animali e cose (ad esempio: «Atena dall'occhio di
civetta, Apollo dio dall'arco d'argento, Ettore elmo lucente, Achille
piè-veloce»). Un terzo dei poemi omerici è costituito da
versi o blocchi di versi fissi ricorrenti.
Il cantore non conosce testo
precostituito, ma ogni volta crea di nuovo il suo canto partendo da quanto gli
altri aedi hanno già composto, ampliando e variando il materiale cantato
in precedenza. Omero è al termine di una tradizione di poesia orale di
questo tipo.
Il cantore, attraverso il racconto delle azioni eroiche,
trasmette al suo pubblico tutto il sapere religioso, scientifico, giuridico e
tecnico del tempo. In quanto deposito di tutti i contenuti culturali di una
civiltà i poemi omerici sono una specie di enciclopedia del sapere, che
l'aedo trasmette al suo pubblico.
A causa della loro formazione i due poemi
appaiono costituiti da una serie di «strati» corrispondenti a fasi
compositive diverse: i più antichi riflettono istituti, usanze, dati di
cultura materiale, modi di pensare risalenti all'età micenea; altri si
riferiscono all'età oscura; altri ancora (soprattutto le similitudini)
direttamente all'età coeva all'autore (VIII secolo a.C.). Il duello
cavalleresco convive con lo scontro a schiere serrate, che ricorda il
manifestarsi di una comune responsabilità, connessa al sorgere della
polis. Le armi di bronzo convivono con quelle di ferro. Lo scudo a torre di
Aiace, tipicamente miceneo, coesiste con quello rotondo più moderno.
Diverso è il tipo di società rispecchiata: nell'Iliade il potere
monarchico è saldo; nell'Odissea è in pericolo per il contrasto
con l'aristocrazia. Piuttosto diverse sono le qualità eroiche valorizzate
nei due poemi: il coraggio e la forza nel primo, la prudenza e l'astuzia nel
secondo. Pur accettando questa stratificazione, è tuttavia necessario
rilevare alcune trasformazioni significative delle istituzioni politiche. Al
posto del wanax miceneo, c'è un principe che, come primus inter pares,
è al di sopra della molteplicità di basilèis, che appaiono
come i rappresentanti delle diverse genti greche alla spedizione contro Troia.
L'eroe compendia in sé nobiltà di nascita, prestanza fisica,
coraggio e senno. Momento di espressione più alta di tale valore è
il duello. Un altro elemento costitutivo della trama mitologica dei poemi
è la presenza attiva degli dei. Sono divinità antropomorfe (da
ànthropos = «uomo» e morphè = «forma») e
interpretano tutte le passioni e tutti i sentimenti più estremi
dell'uomo. Per questo appaiono simili agli uomini, con i loro stessi difetti e
limiti, anche se non soggetti al carattere mortale dell'umanità.
La
maggior modernità dell'Odissea si rivela anche nel presentarci una
concezione più evoluta della divinità, che comincia ad essere
depositaria della legge morale.
L'Iliade, il più antico dei poemi
omerici, narra una parte limitata della guerra dei popoli greci contro la
città di Troia in Frigia, regione dell'odierna Turchia vicina allo
stretto dei Dardanelli.
Il tema centrale del poema è l'ira di
Achille contro Agamennone capo supremo degli eserciti greci. Crise, sacerdote di
Apollo, si reca da Agamennone con un forte riscatto per riavere la figlia
Criseide catturata durante una scorreria degli Achei, ma viene scacciato.
Apollo, divinità favorevole ai Troiani punisce i Greci con una terribile
pestilenza. Conosciuta la causa del male, Achille nell'assemblea dell'esercito
preme perché Agamennone restituisca Criseide; questi finisce per cedere,
ma pretende come risarcimento la schiava più cara ad Achille, Briseide, e
la ottiene valendosi della sua autorità. Il ritiro sdegnato di Achille,
che abbandona per ripicca il combattimento, segna la crisi del campo greco. Solo
la morte di Patroclo per mano di Ettore, il più valoroso dei Troiani,
induce Achille a riconciliarsi con i Greci. L'eroe torna in combattimento e
uccide Ettore; con i funerali dell'eroe troiano termina il poema.
La guerra
troiana, che secondo il mito durò dieci anni, non fu un'impresa puramente
leggendaria. Una città di Troia in Frigia, realmente esistita nel II
millennio a.C., fu scoperta nel secolo scorso sulla collina di Hissarlik
(l'odierna Troia) dal tedesco Heinrich Schliemann.
Se il racconto della
guerra di Troia ha origine storica (la guerra fu una delle tante spedizioni dei
Greci di età micenea a scopo di conquista e di saccheggio), diverse sono
le cause della spedizione. Nel mito le origini della guerra risalgono al
rapimento di Elena, la bellissima moglie di Menelao, re di Sparta, rapita da
Paride giovane figlio Priamo, re di Troia. Per vendicare l'offesa e
salvaguardare l'onore gli Achei sarebbero partiti per una lunga e imponente
spedizione e dopo un assedio decennale avrebbero conquistato e distrutto la
città.
La fine di Troia non è compresa nel racconto omerico,
ma viene riportata dal poema epico latino l'Eneide di Virgilio, che presenta la
versione tramandata nei secoli secondo la quale, grazie ad uno stratagemma
dell'astuto Ulisse, i Greci nascosti in un cavallo di legno entrano di soppiatto
in città e la incendiano.
Gli aedi, come composero poemetti su
singoli episodi della guerra troiana intorno a questo o a quel eroe, così
ne composero sul ritorno degli eroi in patria. Nel più recente dei poemi
omerici, l'Odissea è narrato il ritorno di Odisseo (Ulisse), re di un
piccolo regno che comprendeva alcune isole del Mar Ionio con centro
Itaca.
Nel poema si distinguono due azioni convergenti che successivamente
si uniscono. Dapprima Telemaco, figlio di Odisseo, cerca di frenare l'insolenza
dei proci, giovani signori locali che, dando Ulisse per morto, tentano di
usurparne il trono e fanno a gara per avere la mano della regina Penelope, sposa
fedele di Odisseo. Telemaco allora intraprende un viaggio per mare alla ricerca
di notizie del padre.
Odisseo frattanto, unico sopravvissuto dei compagni
di navigazione, dopo un lungo soggiorno presso la ninfa Calipso nell'isola di
Ogigia, giunge in seguito ad un naufragio all'isola dei Feaci. Agli ospiti Feaci
Ulisse narra le avventure capitategli prima dell'arrivo presso la ninfa: tra le
tante lo scontro vittorioso con il ciclope Polifemo accecato da Ulisse;
l'episodio della maga Circe che trasforma mediante sortilegi i compagni di
Ulisse in porci e l'incontro con le Sirene e con il loro canto ammaliatore a cui
Odisseo si sottrae facendosi legare all'albero della nave e riempendo di cera le
orecchie dei compagni. Dall'isola dei Feaci Ulisse fa ritorno ad Itaca
parallelamente a Telemaco, insieme con il figlio e pochi servi rimastigli fedeli
che lo hanno riconosciuto, per quanto mutato dagli anni e dai lunghi
vagabondaggi, prepara astutamente e di nascosto la vendetta sui proci che
finiscono massacrati.
L'Odissea non ha dietro di sé un preciso
avvenimento storico; i viaggi avventurosi dell'eroe naufrago appartengono ad un
patrimonio narrativo di ampia diffusione nell'area mediterranea. Il poema, oltre
a riflettere la fase di decadenza della monarchia, sembra far riferimento
all'intensa attività marinara delle popolazioni greche della costa e
delle isole. Sia per esercitare la pirateria, sia per allargare i propri
commerci, i Greci si spinsero in terre lontane ed ignote affrontando pericoli di
ogni sorta.
L'ETÀ ARCAICA
Con il termine «età
arcaica» si designa il periodo di tre secoli (dal III al VI secolo a.C.)
che nella storia antica precedette la grande fioritura culturale ed artistica
dell'Atene di Pericle. Poiché quest'ultimo periodo (corrispondente ai
secoli V-IV a.C.) è stato definito «età classica», per
l'eccellenza raggiunta nelle lettere e nelle arti, l'età precedente
è stata considerata arcaica in quanto momento iniziale del processo di
maturazione. La storia politica della Grecia fra 800 e 500 a.C. si riassume in
due fenomeni contemporanei e paralleli: il progresso sociale e politico comune
alla maggior parte delle poleis (città-stato) che porta gradatamente i
Greci dalla monarchia originaria a forme di democrazia, e un vasto movimento di
colonizzazione attraverso il quale la civiltà greca si diffonde nel Mar
Egeo e in quasi tutto il bacino mediterraneo.
LA POLIS
L'ordinamento statale prevalente e
caratteristico di tutto il mondo greco è la pòlis (= città
stato; plurale pòleis). La polis è un'unità politica,
economica, sociale e religiosa in sé conclusa; è un piccolo cosmo,
una realtà in miniatura di quella che può essere la compagine
statale di una Nazione. I Greci la considerarono una comunità naturale,
l'unica forma di organizzazione sociale adatta a uomini veramente degni di
questo nome.
Non è possibile individuare un atto di nascita delle
poleis. In senso urbanistico la città sorse in Oriente molto prima che in
Grecia, come stadio fondamentale nel passaggio dalla vita nomade a quella
sedentaria. In tal senso, i contatti che i Greci stanziati in Asia Minore
(Turchia attuale) ebbero con le civiltà orientali furono decisivi per
offrire impulso alla vita cittadina. Nella Grecia continentale la polis entra
nella storia a partire dalla fine del IX secolo e nel VIII secolo a.C.
La
polis è composta da un centro più o meno urbanizzato in cui si
concentra la vita politica e religiosa. L'elemento fondamentale della
città greca è l'insieme dei cittadini (in greco politai dalla
stessa radice di pòlis, da cui anche politikè tèchne =
«politica»). Una polis è un complesso di uomini liberi che si
autogovernano. Nei decreti, negli atti ufficiali, nelle relazioni internazionali
una polis è designata dal nome collettivo dei suoi abitanti: un greco non
avrebbe detto «la polis di Atene», ma «la polis degli
Ateniesi».
Elementi comuni e caratterizzanti le poleis greche sono:
l'acropoli = «la parte più alta della città», che
costituiva il nucleo più munito della difesa urbana; il tempio della
divinità «poliade» (= «protettrice della
città») che sorge sull'acropoli; le mura di cui si cingono le
città, dal VI secolo a.C. in poi; l'agorà (= «la
piazza») luogo di incontri sia per scambi commerciali che per le assemblee
politiche. L'agorà è l'elemento caratteristico dell'urbanistica
greca, che non trova riscontro né nella città-stato del Vicino
Oriente, che sorge e prospera intorno al tempio o al palazzo reale, né in
quelle micenee, in cui una capillare burocrazia rendeva inutile un luogo dove
tenere l'assemblea dei cittadini. Se la città possiede un porto (militare
o commerciale), questo si trova spesso separato dall'agglomerato urbano:
è il caso di Atene e del porto del Pireo.
L'evoluzione della polis,
da un punto di vista istituzionale, prevede tre periodi: nel primo la
città è composta da famiglie che conservano gelosamente il loro
diritto primordiale e assoggettano tutti i loro membri al loro interesse
collettivo; nel secondo subordina a sé le famiglie e il programma dello
Stato diventa prioritario; nel terzo gli eccessi dell'individualismo mandano in
rovina la città, così da rendere necessaria la costituzione di
Stati più vasti.
La Grecia è frammentata in parecchie
centinaia di poleis. Ogni polis è indipendente, dispone di propri
ordinamenti, proprie leggi, propri magistrati e di un proprio esercito. Con la
sua peculiare fisionomia contribuisce a dare alla civiltà comune una
varietà infinita di espressioni, ma la sua autonomia è tale da
impedire ogni tentativo di formazione sovranazionale. Le relazioni tra le poleis
sono relazioni fra Stato e Stato. Nel suo bisogno di autonomia e sicurezza la
polis entra fatalmente in conflitto con le altre; la guerra è per la
Grecia antica una condizione costante. Per l'ottica greca, la pace, lungi
dall'identificarsi con lo stato naturale interrotto talvolta dallo scoppio di un
conflitto, rappresenta solo una parentesi che separa gli atti di
un'interminabile vicenda bellica.
In circostanze particolari si ebbero
tuttavia nel mondo greco formazione di ordine superiore alla polis: le leghe.
L'alleanza stipulata poteva essere difensiva o offensiva e difensiva insieme;
talvolta la lega rappresentava lo strumento utilizzato da un singolo Stato per
esercitare la sua egemonia.
Le leghe più antiche ebbero carattere
religioso: sono le anfizionìe, e gli anfizìoni che le formano sono
alla lettera «coloro che abitano attorno». Si tratta di leghe con
centro nel santuario di una divinità venerata in comune: i membri, legati
da comuni interessi politici, si impegnavano a proteggere il tempio. Le
anfizionie più antiche furono costituite da gruppi di città
asiatiche; nella penisola una delle più celebri fu quella Tessala che
ebbe sede prima ad Antela (vicino alle Termopili) presso il santuario di Demetra
e poi a Delfi, nella Focide, presso il tempio di Apollo, allorché assunse
carattere panellenico e comprese anche gli Ateniesi e i Dori.
Caratteri
particolari ebbe la lega Peloponnesiaca, costituitasi nel VI secolo quando
Sparta rinunciò all'espansione territoriale diretta e cercò di
radunare attorno a sé con trattati di alleanza il maggior numero
possibile di città. Era un'alleanza militare permanente di carattere
difensivo; le città che ne facevano parte conservavano la loro autonomia,
ma in caso di guerra fornivano contingenti militari su cui Sparta si riservava
il comando: da ciò il nome che suonava: «gli Spartani e i loro
alleati». In epoca classica vi fu la creazione di un'altra importante lega,
quella delio-attica; fondata nel 478/7 a.C. aveva lo scopo di continuare la
guerra contro la Persia. Comprendeva oltre alle città dell'Eubea e delle
Cicladi occidentali, tutte le città liberate dal dominio
persiano.
La riscossione del contributo versato da tutti i membri della
lega alla città egemone, Atene, caratterizzò la lega chiamata
delio-attica, perché nell'isola di Delo, sede del santuario federale
degli Ioni, veniva custodito il tesoro comune delle città alleate. Ma la
lega degenerò trasformandosi in strumento dell'imperialismo ateniese.
Nella seconda metà del V secolo a.C. la minaccia che il sempre più
vasto e potente impero ateniese sembrava racchiudere per l'indipendenza di tutte
le città greche favorì il raggrupparsi intorno a Sparta di tutti
quegli Stati che si videro minacciati e offesi dalla crescente potenza ateniese.
Gli interessi di tanti alleati occasionali concordavano in un solo scopo: la
distruzione dell'egemonia ateniese. Raggiunto tale obiettivo, venne a cessare
ogni impulso alla concordia di intenti tra gli alleati.
A sin.: anfora del VI sec.; a destra: coppa del V sec.
LA COLONIZZAZIONE
Nel XII secolo a.C. l'invasione delle
popolazioni doriche determinò un vasto movimento migratorio di Greci
diretto soprattutto verso le coste dell'Asia Minore. Circa mezzo millennio dopo,
intorno alla metà del VIII secolo a.C., ha inizio il secondo periodo
dell'espansione greca nel Mediterraneo che si protrae per tre secoli.
Le
cause della colonizzazione dell'VIII e del VII secolo a.C. sono varie: dalla
mancanza delle terre coltivabili e dalle sue conseguenze (indebitamento,
schiavitù e carestie), all'incremento demografico, alle situazioni di
oppressione politica e sociale per il predominio delle aristocrazie che
provocavano scontenti ed emarginati.
Solo alcune località del mondo
greco diedero vita al flusso migratorio; tra le più importanti Mileto e
Focea della costa dell'Asia Minore, Calcide ed Eretria dell'isola di Eubea,
Corinto e Megara sull'istmo. Le mete preferite dai coloni furono in Oriente le
coste della Macedonia e della Tracia, degli stretti e del Mar Nero; in Occidente
soprattutto le coste dell'Italia meridionale (Magna Grecia) e della Sicilia, ma
anche quelle dell'Africa settentrionale, della Spagna, della Gallia.
La
colonizzazione determina la nascita di nuove poleis greche lungo quasi tutto il
bacino del Mediterraneo.
Un'ulteriore espansione fu bloccata in Occidente
dalla progressiva resistenza di Cartaginesi e di Etruschi, che guardavano con
crescente preoccupazione alla concorrenza commerciale greca, in Oriente
dall'espansione dei Persiani.
L'acquisizione di nuove terre avvenne a spese
degli indigeni. La scelta del luogo di fondazione della colonia obbediva a
regole precise: l'importanza economica del retroterra, la qualità delle
terre, la posizione delle genti locali nei confronti degli stranieri, la
difendibilità del luogo, il collegamento con le vie commerciali.
La
città da cui partivano i coloni, o la maggior parte di essi, veniva
considerata la madrepatria (metropolis) della colonia che si andava a fondare.
All'atto della partenza la città-madre forniva ai coloni navi, mezzi,
informazioni e un capo, l'ecista, il fondatore della colonia, di solito nobile,
a cui dopo la morte i coloni tributavano gli onori riservati agli dei. Prima di
intraprendere l'impresa si consultava ordinariamente l'oracolo di Delfi, il cui
patronato si estese a tal punto da accreditare l'idea che l'approvazione di
Apollo fosse un elemento indispensabile per la riuscita dell'impresa.
A
differenza delle colonie ateniesi di età classica, di quelle romane o di
quelle degli Stati moderni, le colonie greche di età arcaica non ebbero
carattere statale, salvo rare eccezioni, la polis che nasceva era del tutto
autonoma rispetto alla madrepatria. Restavano i legami di lingua, di cultura, di
religione; fiorivano i rapporti commerciali, ma cessavano quelli politici: la
colonia stipulava trattati, fondava a sua volta altre colonie, si dava leggi,
sceglieva magistrati senza interferenza della madrepatria.
Non tutti gli
insediamenti commerciali erano vere e proprie poleis, alcuni erano empori (ad
esempio Naucrati sul Delta dell'Egitto). Le imprese coloniali diffusero la
cultura greca molto lontano dalle sue basi native.
Le colonie contribuirono
anche a far superare i limiti di un'economia esclusivamente agricola, con
industrie scarse e non sviluppate oltre il livello dell'artigianato locale e con
un'attività marinara in declino. Mutando i rapporti economici
contribuirono a mutare anche quelli giuridici tra le varie classi sociali,
determinando la decadenza dei privilegi dell'aristocrazia.
AREA DELLA COLONIZZAZIONE GRECA
Latini ed Etruschi, Oschi e Messapi, Siculi
e Sicani (tutte popolazioni italiche) accedono alla civiltà urbana grazie
all'influenza esercitata dalle numerose e fiorenti colonie greche. Dalla colonia
greca di Cuma l'alfabeto di Calcide fu trasmesso agli Etruschi e attraverso
questi anche ai Romani.
Alla terra da cui erano partiti i coloni greci
apportarono durevoli e cospicui vantaggi come l'impulso alla navigazione (le
prime triremi vennero costruite a Corinto verso la fine del VII secolo a.C.),
alla produzione artigianale (i manufatti greci, dopo aver fatto scomparire dai
mercati ellenici gli articoli fenici, cominciarono a comparire in concorrenza
con questi in tutti gli scali ed empori del Mediterraneo), al commercio favorito
dall'introduzione della moneta che fu coniata per la prima volta in Lidia nel
VII secolo a.C.. mentre ad Egina troviamo il Primo conio di monete della Grecia
propriamente detta.
Area della colonizzazione greca
L'EVOLUZIONE DELLA CITTÀ
Nella città aristocratica
(aristocrazia = «comando dei migliori» da àristos =
«ottimo», termine con cui il nobile designava se stesso, e
kràtos = «dominio») e oligarchica (oligarchia = «comando
dei pochi», da olìgoi = «pochi» e arché =
«comando») solo una parte dei cittadini, che possiede determinati
requisiti legati alla nascita o al possesso di beni (in origine solo fondiario,
poi si giunse ad equiparare proprietà mobile e proprietà terriera)
gode dei pieni diritti e può partecipare al governo della cosa
pubblica.
Le poleis più antiche, sorte nei secoli bui, avevano un
carattere decisamente aristocratico. I nobili avevano nelle mani un forte potere
economico: erano proprietari terrieri e allevatori di bestiame. I titoli con i
quali li si designava in alcune città esprimono la realtà di una
casta che si riteneva superiore per origine divina, virtù morali,
ricchezza: Eupatrìdai (= «ben nati»), Eughenéis (=
«di buona stirpe»), Hippobotes (= «allevatori di cavalli»).
A fianco degli aristoi vivono persone che non hanno potere politico, che
possiedono poca terra o che, impossibilitati a saldare i debiti contratti con i
nobili, coltivano per altri la loro terra di un tempo.
In questa situazione
la trasformazione economico-sociale conseguente alla colonizzazione ha profonde
ripercussioni anche sulle strutture politiche. Lo sviluppo dell'industria e del
commercio aveva prodotto non solo una borghesia opulenta, ma anche una classe
media di artigiani e di mercanti, le cui condizioni di vita e i cui interessi
erano assai vicini a quelli dei contadini, che nell'esercito oplitico erano
chiamati per la prima volta a difendere la polis. Di fronte alla pretesa dei
ghéne (= «grandi famiglie») aristocratici di conservare il
monopolio della vita pubblica, essi cominciarono a reclamare la partecipazione
al governo e la pubblicazione delle leggi.
I LEGISLATORI
Alle origini della legislazione scritta sta
la richiesta di sostituire un insieme di norme vincolanti (il nòmos =
«la legge» formulata dal legislatore e accettata dalla comunità
dei cittadini) alle leggi consuetudinarie, tramandate oralmente, che potevano
essere modificate o interpretate in modo da soddisfare gli interessi della
classe dominante.
Nell'VIII-VII secolo a.C. il poeta Esiodo, servendosi
della favola dell'usignolo ghermito dallo sparviero rappresenta efficacemente
gli effetti dolorosi di una giustizia che privilegia il diritto del più
forte. I «re divoratori di doni», come Esiodo chiama i giudici
aristocratici, calpestano i diritti del piccolo contadino.
I primi codici
scritti non si propongono di modificare la legge, quanto di pubblicarla e di
impedire la sua mancata applicazione e distorsione. I primi legislatori appaiono
nelle colonie occidentali, dove più forte era la necessità di
fissare norme vincolanti per tutti i cittadini per salvaguardare
l'identità e l'unità del centro, e minore era la forza della
tradizione. A Zaleuco di Locri, Caronda di Catania e Diocle di Siracusa si
aggiungono tra il VII e il VI secolo a.C. Dracone e Solone ad Atene, Licurgo a
Sparta.
L'esistenza storica di questi nomoteti (legislatori, da nomos =
«legge» e da tìthemi = «porre») non è del
tutto accertabile. La critica moderna in alcuni casi ha pensato ad antiche
divinità solari (Zaleuco) o a figure eroico-divine (Licurgo).
L'attribuzione dei codici di leggi a queste divinità poi storicizzate
corrisponde alla concezione greca, e più generalmente antica, secondo la
quale il diritto costituisce un ordinamento di origine divina.
Il nomoteta
arcaico risponde ad una precisa tipologia comune: gli sono attribuiti un viaggio
di apprendistato precedente la legislazione, un maestro illustre, un'estrazione
sociale media (poiché mediana è la posizione che dovrà
assumere), l'esilio spesso volontario successivo alla legislazione, la morte
esemplare. Rientra poi fra i tratti eroici del legislatore la monoftalmia (dal
greco mònos = «solo» e ophthalmòs = «occhio»).
I legislatori perdendo un occhio rinunciano a una conoscenza esteriore in cambio
di una saggezza più profonda, non diversamente dai veggenti
(Tirèsia) e dai poeti (Omero) ciechi. L'unico occhio del legislatore
Licurgo simboleggia, in tempo di pace, la prova della sua veggenza e, in tempo
di guerra, lo sguardo penetrante con cui affascina i nemici o gli antagonisti
politici.
Le codificazioni greche, con qualche modifica a seconda del
legislatore, non offrono che una riproduzione delle consuetudini giuridiche a
quel tempo vigenti. Dietro alle singole disposizioni, soprattutto nel campo del
diritto penale, traspare l'intento di fissare per legge la misura della sanzioni
per impedire l'arbitrio dei giudici. Numerose sono le disposizioni nuove nel
campo riguardante i debiti, l'eredità e la schiavitù. Le pene sono
di una durezza estrema: ad Atene, secondo la legge di Dracone, il furto è
punito con la morte; chi non salda i propri debiti diventa con la famiglia
proprietà del creditore. Un grande progresso è evidente nella
distinzione di Dracone tra uccisione e omicidio preterintenzionale: nel primo
caso la pena è la morte, nel secondo l'esilio. La vendetta privata, la
faida, è sostituita dall'organizzazione giudiziaria dello Stato, segno
che l'idea di Stato si sta affermando e supera gradualmente i vincoli
nobiliari.
I TIRANNI
Le riforme tentate dai legislatori
rappresentano spesso un compromesso tra le preoccupazioni degli aristocratici
conservatori e le rivendicazioni del popolo. Ciò nonostante non riescono
a mettere fine alla crisi sociale greca, che, in certi casi, trova una soluzione
provvisoria nel regime che i Greci chiamano tirannide.
Il termine greco
tyrannos (= «tiranno») in origine indica chi esercita un potere non
legittimo, assunto per via non dinastica e non costituzionale; solo a partire
dal IV secolo a.C. assume il senso fortemente negativo conservato fino ad ora.
Come per i primi legislatori, esiste una tipologia antica del tiranno che
prevede un oracolo che ne predice l'avvento, la sua nascita oscura, le
atrocità a cui si abbandona dopo l'assunzione del potere (valga come
esempio il ritratto grottesco di Falaride, tiranno di Agrigento, che arrostisce
i nemici nel ventre di un toro di bronzo). Gli studiosi moderni a questa
immagine negativa hanno affiancato quella del tiranno anticipatore delle riforme
democratiche.
I tiranni, tra cui emergono i nomi di Cipselo e Periandro a
Corinto, Teagena e Megara, Ortagora a Sicione, Policrate a Samo, Pisistrato e i
suoi figli ad Atene, sono quasi sempre nobili (molto raramente avventurieri)
che, contando sull'appoggio di un dèmos (= «popolo») esasperato
dall'insolenza degli aristocratici, strappano il potere all'aristocrazia e
impongono il proprio dominio. Il governo dei tiranni si basa su una
contraddizione di fondo: le classi popolari, piattaforma del successo dei
tiranni, continuano ad essere escluse dalla guida della città; il potere
è accentrato esclusivamente nelle mani di un individuo che l'ha ottenuto
illegalmente e in circostanze eccezionali.
Di norma i tiranni non mutano la
costituzione dello Stato. Per sostenersi si limitano a tenere in pugno
l'esercito, a condurre una politica familiare, ripartendo tra i propri
partigiani le magistrature, ad assicurarsi con mezzi vari il consenso del
dèmos.
Le confische inflitte agli avversari di estrazione
aristocratica (proprietari terrieri) il sistema di tassazione introdotto portano
ad una diversa e più varia distribuzione della ricchezza, favorendo lo
sviluppo della piccola proprietà. L'impulso dato ai lavori pubblici,
fonte di guadagno per la manodopera popolare, ai commerci, alle colonizzazioni,
ai rapporti diplomatici più che alle soluzioni di forza, sanziona un
progresso economico, culturale e civile.
Esempio chiaro di una tirannide
sollecita del progresso economico e del benessere materiale dei cittadini sono i
Pisistratidi di Atene. Pisistrato, capo della fazione più popolare e
inquieta della cittadinanza ateniese, costituita da salariati senza mezzi
sufficienti per vivere e da contadini in miseria che reclamavano la
redistribuzione della terra, si impadronisce del potere nel 561/560 a.C.;
esiliato pochi anni dopo, rientra in Atene nel 546/5 a.C. e, per una ventina
d'anni, approfitta di ogni occasione per assicurare ad Atene una grandezza che
è allo stesso tempo la sua grandezza. Dedica la sua attenzione alle masse
contadine, risolvendo la questione agraria con la divisione delle terre incolte
confiscate ai nobili, con prestiti ed esenzioni dai tributi.
Con una
lungimirante politica estera, apre al commercio marittimo ateniese le Cicladi,
l'aurifera Tracia e l'Ellesponto, da cui proveniva il grano. La ricchezza di
oro, proveniente dalle miniere personali del tiranno in Tracia, e di argento
della regione del Laurio in Attica, gli consente di circondarsi di una corte
fastosa e di realizzare un vasto programma di lavori pubblici.
Dispone che
vengano celebrate con maggior solennità le Panatenee (feste in onore di
Atena) ed organizza per Dioniso, divinità agreste per natura estranea ai
culti aristocratici, le Grandi Dionisiache, in cui si svolgono i concorsi
tragici. Pisistrato muore nel 528/7 a.C. Con il figlio Ippia la tirannide
è ormai un'istituzione anacronistica. Spezzato lo strapotere dei nobili,
ripartita su nuove basi la ricchezza avviato lo sviluppo economico della
comunità, vengono meno le circostanze per cui la tirannide si era
affermata. Il popolo si sente ormai pronto a partecipare attivamente alla
politica. Alla fine del VI secolo a.C. i tiranni scompaiono in tutta la Grecia.
Solo in Sicilia la tirannide si protrae nel V e si rinnova nel IV sec. a.C.
anche in funzione della lotta contro Cartaginesi ed Etruschi. Tra i nomi
più famosi si possono ricordare quelli di Ippocrate di Gela, Gelone di
Siracusa, Terone di Agrigento e dei due Dionigi di Siracusa.
SPARTA E ATENE
Erodoto (storico greco del V secolo a.C.)
riporta il più antico dibattito di teoria politica di cui si tramandi
memoria. Un gruppo di dignitari persiani, impegnati a discutere sulla forma di
governo da dare alla Persia dopo la morte di Cambise, prospettano
alternativamente i vantaggi e gli inconvenienti della monarchia, dell'oligarchia
e della democrazia. Sola convincente è la prima; l'assolutismo del resto
era connaturato alle civiltà dell'Antico Oriente. Il racconto vale come
testimonianza sia di una tipica tematica greca relativa alla miglior forma di
governo (oggetto dell'analisi filosofica di Platone e Aristotele), sia di una
realtà che vedeva la Grecia frantumata in molti Stati.
Tra i tre
governi dello schema erodoteo, i Greci si erano presto liberati della monarchia.
Nel medioevo ellenico il re (basiléus) governa la città, comanda
l'esercito, amministra la giustizia e svolge le funzioni di sommo sacerdote.
L'autorità di cui gode, basata sia sulle sue origini ritenute divine, sia
sulla sua ricchezza, non è però assoluta, ma deve venire a patti
con l'assemblea degli anziani e con la volontà dei nobili. Nell'VIII
secolo la monarchia sopravvive solo in numero ristretto di città.
Le
sorti della Grecia si giocano essenzialmente nell'opposizione tra il sistema
oligarchico e il sistema democratico, rappresentati in modo esemplare il primo
da Sparta, il secondo da Atene. A queste due città guardavano le altre
poleis greche, allineandosi nell'uno o nell'altro schieramento a seconda delle
loro costituzioni.
SPARTA
Sparta, considerata il prototipo della
città aristocratico-oligarchica, si formò quando alcune
tribù doriche si insediarono in una regione del Peloponneso meridionale,
la Laconia, sottomettendo le popolazioni indigene anche della vicina
Messenia.
Gli antichi solevano riportare la totalità degli
ordinamenti spartani al legislatore Licurgo. In realtà la costituzione
spartana fu l'esito di una lunga evoluzione compiutasi fra il IX e il VI secolo
a.C., anche sotto l'influenza delle guerre messeniche. Per mantenere in
condizione di oppressione la massa turbolenta delle popolazioni assoggettate,
Sparta, dopo il VII secolo a.C., si chiuse in un rigido conservatorismo, che
impediva ogni scambio di notizie con l'esterno, reprimeva ogni novità ed
estraniava la città dalla vita culturale della Grecia, creando uno Stato
militare dalla struttura politica e sociale rigidissima.
L'esercizio delle
armi, che in tutte le città aristocratiche ebbe sempre una funzione di
primo piano, a Sparta era imposto dalla necessità che un'esigua minoranza
dominasse una massa di sudditi molto più numerosa. Questa minoranza
costituiva il gruppo degli homoioi (= «uguali») o Spartiati, i soli
cittadini con pieni diritti, il cui numero massimo fu di cinquemila al tempo
della battaglia di Platea nel 479 a.C.
Agli Spartiati era proibito svolgere
un'attività artigianale o commerciale ed anche coltivare il lotto di
terra che lo Stato assegnava loro come concessione ereditaria e inalienabile. La
loro vita era interamente consacrata alle armi. Dall'età di sette anni
erano sottoposti ad un sistema educativo organizzato dallo Stato di impostazione
totalmente militare che infondeva in loro gli ideali di obbedienza
incondizionata, di completa dedizione al dovere, di disprezzo per i beni della
vita, preparandoli al combattimento di gruppo.
Gli Spartiati potevano
dedicarsi completamente alle attività militari poiché il lavoro
dei campi era affidato agli Iloti, discendenti dai Messeni e Laconi assoggettati
dagli Spartani. Profonda è la differenza tra gli Iloti e gli schiavi
ateniesi. Gli Iloti o servi della gleba, erano di proprietà dello Stato e
non di singoli; non erano comprati né venduti, prestavano il servizio
nell'esercito, la loro situazione materiale era tollerabile. Data la loro
omogeneità etnica, le rivolte degli Iloti di Laconia e Messenia furono un
fattore costante della storia spartana.
La terza categoria della
popolazione lacone era composta dai Perieci (= «coloro che abitano
intorno»). Erano anche essi uomini liberi e potevano dedicarsi ad
attività economiche precluse agli Spartiati (agricoltura, allevamento,
artigianato e commercio); a differenza dei meteci ateniesi, era loro concesso di
possedere terre. Raggruppati in piccole comunità, essi godevano di una
certa autonomia locale, erano reclutati nell'esercito, ma non possedevano alcun
diritto di intervento nella vita politica della città.
La
costituzione spartana si presentava irrigidita nel medesimo conservatorismo e
nella medesima tendenza a limitare l'iniziativa individuale che caratterizzava
gli altri aspetti della vita spartana. La monarchia era sopravvissuta a Sparta
nella forma di diarchia: due re con funzioni sacerdotali e di comando
dell'esercito. Il collegio dei cinque efori (che alcuni moderni hanno ipotizzato
fossero in origine sacerdoti) costituiva l'esecutivo della polis spartana, aveva
il compito di controllare l'operato dei re e dei cittadini e presiedeva
l'assemblea popolare.
Il consiglio (gherusia) comprendeva ventotto geronti
di età superiore a sessant'anni e i due re e fungeva sia da alta corte di
giustizia sia da organo che prepara le proposte da sottoporre
all'assemblea.
L'assemblea popolare (apella) era formata da tutti gli
spartani di nascita libera (homoioi) di età superiore ai trent'anni. Essa
eleggeva i magistrati, approvava o respingeva le proposte del consiglio,
dichiarava la guerra, stipulava le alleanze. Nella assemblea non era ammessa la
discussione.
La costituzione spartana è dunque oligarchica,
poiché solo una minoranza ristretta, quella degli homoioi, partecipa alla
vita politica; ma all'interno di questa oligarchia tutti i cittadini godono di
uguali diritti.
ATENE
Capitale delle stirpi ioniche stanziate in
Attica, dopo un periodo di netta prevalenza aristocratica, Atene fu il teatro di
un processo che attraverso Dracone, Solone, Clistene, Pericle portò a
quella forma istituzionale detta democrazia (da démos =
«popolo» e kràtos = «dominio»). A Dracone si
attribuisce la prima legislazione scritta di Atene, presentato forse a torto da
Aristotele come una costituzione timocratica (dal greco timé =
«censo» e Kràtos «potere», cioè «fondata
sulla ricchezza»).
Solone, arconte con pieni poteri nel 594/3 a.C.
(secondo Diogene Laerzio) attuò alcune riforme, tra cui il cosiddetto
«scuotimento dei pesi», che annullava le ipoteche sulle persone e sui
beni dei cittadini e vietava la schiavitù per debiti, e la riforma dei
pesi e delle misure con sostituzione del sistema dei pesi. Discussa è
l'attribuzione a Solone, forse a lui anteriore, della divisione della
popolazione in quattro classi di censo (pentacosiomedimni, triacosiomedimni,
ippèis - coloro che potevano mantenersi un cavallo - zeugiti, teti) a
seconda delle rendite annuali valutate, essendo l'Attica una regione ancora
prevalentemente agricola, in medimni (52 litri) di cereali o metreti (39 litri)
di vino. L'appartenenza a queste classi di censo, e non più la
nobiltà di nascita, regolava l'accesso alle magistrature e al servizio
militare. I teti, rappresentanti della quarta classe, non avevano accesso alle
magistrature né all'esercito, potevano però partecipare
all'assemblea (ecclesia) e far parte dell'eliea (tribunale popolare).
Per
quanto una parte della tradizione consideri Solone il padre della democrazia, le
sue riforme furono quelle di un moderato, che, come egli stesso afferma in una
sua poesia, si limitò ad abolire le ingiustizie più macroscopiche
senza alterare l'assetto sociale. Di fronte alla tensione sociale originata
dall'ineguale ripartizione del suolo, Solone annullò i debiti garantiti
dalla persona fisica del debitore e riscattò gli Ateniesi venduti schiavi
perché debitori insolventi, senza però procedere alla
redistribuzione delle terre.
L'opera di riforma democratica avviata da
Solone fu portata a compimento da Clistene. Arconte nel 508/7 a.C. Clistene
apportò alla costituzione di Atene radicali innovazioni per infrangere il
potere della nobiltà. Sostituendo al legame di sangue il principio
territoriale fece in modo che tutti i cittadini fossero membri di un distretto
territoriale (demo).
Clistene divise la popolazione dell'Attica in 10
tribù territoriali, ciascuna delle quali eleggeva i propri rappresentanti
senza distinzione di nascita e di ricchezza. Per togliere alla tribù la
possibilità di rappresentare solo gli interessi degli aristocratici
proprietari terrieri e scongiurare il pericolo di contrasti interni, volle che
ogni tribù fosse composta da tre unità territoriali minori (le
trittie), una della città (o asty), una dell'entroterra, (tulsogaia), una
della costa (o paralia).
Ogni tribù doveva fornire un reggimento di
opliti, con il suo capo, sorteggiare tra i suoi membri di età superiore
ai 30 anni, 50 rappresentanti al Consiglio dei Cinquecento (Boulé) o
eleggere un arconte o il segretario della Boulé, infine inizialmente uno
dei dieci strateghi. La Boulé preparava il testo delle proposte da
sottoporre all'assemblea.
Tutti i cittadini di nascita libera maggiori di
20 anni esercitavano il loro potere sovrano nell'ecclesìa (assemblea
popolare), cui spettavano le decisioni sulla pace e la guerra, sulle alleanze,
sulla legislazione, sulle condanne a morte o all'esilio, sull'elezione dei
magistrati e il loro operato, e il controllo sulle finanze.
Le altre
magistrature, per permettere a tutti i cittadini di partecipare effettivamente
alla vita politica, erano annuali e collegiali.
Per garantire lo Stato
contro eventuali tentativi di restaurazione della tirannide, pare che Clistene
stesso abbia istituito l'«ostracismo», procedimento per il quale chi
era sospettato di congiurare contro la polis poteva essere bandito da Atene per
dieci anni ed essere temporaneamente privato dei diritti politici. A sancire la
condanna bastava il voto di seimila cittadini espresso su cocci di argilla
(òstraka). La pena fu usata spesso da individui dotati di prestigio
politico come strumento per sbarazzarsi dei propri avversari.
La riforma
clistenica nel suo complesso pose tutti i cittadini su un piano di uguaglianza
politica giuridica. L'intero corpo civico era partecipe e responsabile di ogni
decisione relativa al governo della città. Il regime democratico aveva
tuttavia i suoi limiti: mentre scomparivano le disuguaglianze di status fra gli
Ateniesi e proseguiva l'avanzata della democrazia, la comunità dei
cittadini diventò un gruppo del tutto esclusivo. Una legge di Pericle del
451/50 a.C. prescrive che solo i figli di ambedue i genitori ateniesi
divenissero cittadini di Atene. Ai soli cittadini era riservato l'elettorato
attivo e passivo e il possesso delle terre.
Dal corpo civico erano esclusi
donne, meteci e schiavi. «Grande è la reputazione di quella donna di
cui per lode o per biasimo si parli il meno possibile»; queste parole di
Pericle, riportate da Tucidide, sono il miglior commento alla condizione della
donna ateniese, esclusa, a differenza di quella spartana, dalla vita politica,
economica ed intellettuale. I meteci (da metoikèo = «abito
intorno») erano gli stranieri residenti in Attica, uomini liberi, ma privi
di diritti politici, soggetti al metoikion (tassa sulla persona che
simboleggiava l'inferiorità del loro status), esclusi dal diritto di
possedere terre, si dedicavano all'artigianato, al commercio,
all'attività bancaria. Poiché i meccanismi economici fondamentali
erano nelle loro mani, la presenza degli stranieri in Atene fu sempre
incoraggiata.
All'infimo grado della società si trova la massa degli
schiavi, che costituì per secoli la base dell'economia ateniese. Lo
schiavo, a differenza dell'Ilota spartano, era una mèrce, poteva essere
venduto, comprato, affittato, dato in pegno. Non aveva diritti politici e
civili, non prendeva parte alle guerre.
LIBERI E SCHIAVI
Il filosofo Aristotele (IV secolo a.C.)
definisce l'uomo un «animale politico» (zòon politikòn =
«un essere della polis»), ma lo chiama anche «essere della
famiglia» e «essere destinato dalla natura a vivere in una
comunità». All'interno delle comunità, anche quelle governate
da un ordinamento di tipo democratico, non tutti i membri sono uguali. Non si
tratta tanto di differenza fra città e campagna, ma di ineguaglianza fra
liberi e schiavi, ricchi e poveri, cittadini e non cittadini.
Il lavoro
servile sotto una forma o l'altra è presente in tutta la storia greca.
Per l'Ateniese medio di età classica non vi era niente di più
naturale che scaricare sugli schiavi il lavoro. Gli schiavi lavoravano come
domestici nelle case private, come operai nelle botteghe artigiane, come
minatori nelle cave e nelle miniere e costituivano la maggioranza dei lavoratori
agricoli.
Aristotele nel primo libro della Politica, affrontando il
problema della schiavitù, enunciò la dottrina della
naturalità di questo istituto: come in ogni essere vivente composto di
anima e corpo, il corpo ubbidisce all'anima, e come fra tutti gli esseri viventi
gli animali sono soggetti agli uomini, così anche tra gli uomini stessi
ve ne sono alcuni, la cui attività consiste nell'uso del corpo, che sono
schiavi per natura e trovano il loro stesso vantaggio nello stare sottomessi,
nell'essere proprietà di un altro.
Anche all'interno delle poleis
democratiche esisteva poi una netta disuguaglianza tra uno strato privilegiato,
che deteneva il potere economico e accedeva con maggior facilità alle
cariche di governo, e le masse popolari ridotte a livello si sussistenza e in
ruoli politicamente passivi.
Alcune attività economiche erano
considerate degne di un cittadino, altre inferiori e perciò adatte alle
classi sociali inferiori o agli stranieri o agli schiavi. L'agricoltura occupava
un posto al vertice della scala gerarchica: l'ideale era rappresentato dal
proprietario terriero libero, indipendente, autosufficiente. In fondo alla scala
erano il commercio e le attività manuali.
La distinzione di
significato più ampio, destinata a durare per tutto il periodo classico
negli Stati democratici e in quelli oligarchici fu però quella fra
cittadini, cui erano riconosciuti pieni diritti politici e civili, e non
cittadini. In una polis uno straniero non è necessariamente un barbaro,
anzi spesso proviene da un'altra polis, parla greco e si comporta da greco. La
barriera che lo divide dai cittadini non è dunque innalzata da pregiudizi
culturali razziali; la città-stato greca è un mondo chiuso, geloso
della propria autonomia: chi viene da fuori viene accettato solo in posizione
subordinata e lasciato ai margini della comunità di uguali.
Nel
mondo greco solo i cittadini avevano diritto al possesso della terra, solo in
circostanze eccezionali il privilegio poteva essere esteso a singoli non
cittadini. Molti stranieri erano impegnati attivamente nel commercio, nella
manifattura, nei prestiti di denaro; alcuni frequentavano ambienti sociali
elevati, ma erano politicamente emarginati e non potevano possedere né
campi, né case. Tra i tanti privilegi dei cittadini di pieno diritto
c'era quello di non pagare le tasse. Il modo in cui i Greci applicavano le
imposte, che costituivano la principale fonte di reddito delle città
greche, rivela il sistema di valori su cui si basava la città greca.
Generalmente si evitavano le imposte dirette regolari sulla proprietà e
sulla persona dei cittadini, imposte che il Greco avrebbe sentito come
umilianti. Non vi era però alcuna esitazione a tassare i non cittadini:
per esempio, ad Atene una parte delle entrate finanziarie dipendeva da
un'imposta speciale che i meteci (stranieri) pagavano e che simboleggiava
l'inferiorità del loro status.
L'ETÀ CLASSICA
L'età classica (V-IV secolo a.C.)
è considerata l'apogeo della grecità. Classico è sinonimo
di esemplare, di modello degno di essere imitato; dal campo artistico il termine
si è esteso a tutti gli aspetti della civiltà greca del V e IV
secolo a.C., cosicché le opere prodotte in quel tempo costituiscono una
sorta di ideale normativo, un criterio di giudizio.
Due conflitti dominano
il quinto secolo: quello che oppone i Greci ai Persiani (490-478 a.C.) e quello
che vede combattere tra loro quasi tutte le poleis greche attorno a Sparta o ad
Atene (431-404 a.C.). Se nel confronto con il Grande Re persiano la posta in
gioco è la libertà del mondo greco, l'opposizione tra Atene e
Sparta è più complessa.
Sparta, isolata nell'entroterra del
Peloponneso, autosufficiente economicamente, chiusa agli stranieri, conserva
immutato il sistema politico-sociale arcaico e, quanto al suo aspetto, secondo
lo storico Tucidide (V secolo a.C.) ricorda più che una città un
insieme di villaggi.
Atene, situata al centro delle maggiori vie di
comunicazione della penisola greca, è un attivo centro artigianale e
commerciale, dotato di uno dei maggiori scali del Mediterraneo, il porto del
Pireo. Dall'Egitto, dal Ponto e dalla Sicilia, giunge in Atene il grano
necessario a nutrire il vasto agglomerato urbano; in cambio essa offre vino,
olio e manufatti. Le sue strade brulicano di stranieri. Splendidi edifici ed
opere d'arte accentuano il carattere aperto alle innovazioni di questa
città che diventa il più vivace centro culturale dell'Occidente.
All'immobilismo costituzionale spartano Atene oppone una progressiva evoluzione
verso un maggior potere del popolo.
La Lega di Delo, fondata nel 478/7 a.C.
e comprendente molte città dell'Egeo, diventa lo strumento per eccellenza
dell'imperialismo ateniese, trasformando gli antichi alleati che avevano aderito
volontariamente alla coalizione antipersiana in sudditi tributari, le cui
defezioni erano punite duramente e la cui politica interna era soggetta
all'interferenza di Atene.
Durante la guerra del Peloponneso questo
imperialismo s'impone con violenza ancora maggiore. La città che si
professava campione della libertà non sa ammettere che la piccola isola
di Melo nell'Egeo mantenga la sua neutralità rifiutando di assoggettarsi
all'egemonia ateniese. Nel 416 a.C. Atene si macchia di un atroce genocidio:
tutti gli uomini adulti dell'isola sono uccisi, le donne e i bambini venduti
schiavi e i territori confiscati.
L'ATENE DI PERICLE
A partire dal 462 a.C. per iniziativa prima
di Efialte, poi di Pericle, viene approvata una serie di provvedimenti che
permettono una partecipazione più ampia agli ordinamenti già
previsti dalla costituzione di Clistene.
Si stabilisce che le alte
magistrature siano assegnate per sorteggio tra tutti i cittadini, ad eccezione
di alcune cariche militari e finanziarie, le quali per la specifica competenza
tecnica richiesta rimanevano elettive. Si sancisce per la prima volta nella
storia l'assegnazione di un'indennità giornaliera a tutti coloro che
ricoprono un pubblico ufficio, permettendo anche ai più umili di accedere
alle cariche pubbliche mentre in precedenza esse erano di fatto, se non di
diritto, riservate a quanti potevano vivere di rendita.
L'evoluzione della
costituzione indebolisce l'autorità degli arconti e del tribunale
dell'Areopago, l'organo più aristocratico della costituzione ateniese,
residuo di antichi privilegi nobiliari, mentre si accrescono ulteriormente i
poteri dell'ecclesia, della Boulè dei Cinquecento e dei tribunali
eliastici.
La guida suprema dello Stato spetta ai dieci Strateghi e in
primo luogo al presidente del collegio degli Strateghi. Eletto a questa carica
per quasi trent'anni dal 460 a.C., Pericle gode di poteri così estesi
che, secondo lo storico Tucidide, «in apparenza si trattava di democrazia,
in realtà del governo di uno solo».
In politica estera Pericle
si impegna contemporaneamente contro i Persiani per estendere l'egemonia di
Atene su tutto il Mediterraneo orientale, contro Sparta per affermare il primato
ateniese in Grecia. Fulcro della sua politica interna è invece l'ideale
democratico, inteso come uguaglianza di tutti davanti alla legge, ma anche come
possibilità per tutti di vivere una vita dignitosa; eppure
contemporaneamente, con un'iniziativa contraddittoria e razzista, lo stesso
Pericle esclude dal diritto di cittadinanza gli abitanti che avevano un solo
genitore ateniese e determina la chiusura della polis.
Il tesoro della Lega
di Delo, trasferito ad Atene nel 454 a.C., su iniziativa di Pericle viene
destinato alla ricostruzione monumentale della città. Fidia, massimo
scultore di età classica, collabora a progettare e dirigere i lavori
dell'Acropoli e provvede personalmente a scolpire con l'aiuto degli allievi i
fregi del Partenone: nel tempio della dea Atena viene eretta una statua
crisoelefantina (= «di oro e di avorio», da chrysòs =
«oro» e elephàntinos = «di avorio»).
Con
Eschilo, Sofocle, Euripide, la tragedia attica diviene strumento di educazione
morale e politica collettiva. Il filosofo Anassagora, maestro e amico di
Pericle, propone un'interpretazione della realtà del tutto libera da
elementi mitologici e presenta contro il mito dell'età dell'oro una
teoria del progresso basata sull'evoluzione della tèchne (=
«arte», intesa come strumento per modificare la realtà).
I
Sofisti diffondono una cultura critica razionalistica, irriverente della
tradizione e pronta a discutere su tutto. Non esiste secondo loro un sapere
assoluto e ovunque valido, ma «l'uomo è misura di tutte le
cose»; le divergenti opinioni non devono essere valutate in base alla loro
presunta verità, ma piuttosto per le conseguente pratiche che ne
derivano. L'equilibrio tra culti poliàdi (= «della
città») e culti popolari iniziato ai tempi di Pisistrato si
consolida. Atena e Poseidone, le più antiche divinità dell'Attica
vengono adorate insieme sull'Acropoli e a Capo Sounion.
Soprattutto Atene
trae benefici dalla nuova potenza della sua città. Le classi artigiane,
salite a grande prosperità sotto il governo di Pericle, sia grazie alla
sua politica di lavori pubblici, sia per il diffondersi delle ceramiche, hanno i
loro protettori in Atena Ergane (= «operaia»), Efesto e
Prometeo.
LA GUERRA DEL PELOPONNESO
Nel 431 a.C. il latente antagonismo tra
Atene e Sparta, intorno alla quale si stringono altre città minacciate
dalla politica imperialistica ateniese, esplode nella cosiddetta Guerra del
Peloponneso che si protrae sino al 404 a.C. e che, sebbene sia detta
peloponnesiaca, investe un'area più vasta, dalla Grecia alle coste
dell'Asia Minore, dall'Ellesponto alla Sicilia, dalla penisola calcidica
all'isola di Corcira.
L'impero ateniese è decisamente superiore ai
suoi avversari dal punto di vista demografico, economico e soprattutto navale.
La Lega Peloponnesiaca gode invece di una indiscussa prevalenza nelle forze
terrestri e può contare sull'appoggio di città come
Siracusa.
Il secondo anno di guerra un'epidemia di peste priva Atene del
suo statista Pericle. Dopo la sua morte (429 a.C.) si affrontano nella
città attica i fautori della guerra ad oltranza e quelli della pace e
degli accordi con Sparta.
Tutte le contraddizioni del mondo greco esplodono
contemporaneamente. Nel 411 a.C., in un'Atene logorata dalla tensione e dalla
delusione, è tentato un colpo di Stato per abbattere la democrazia e
tornare all'oligarchia. La costituzione oligarchica imposta e limita i diritti
politici in base al censo, ma ha vita brevissima.
A rendere ancora
più grave la situazione nell'ultima fase del conflitto intervengono a
fianco di Sparta i Persiani, i quali riescono così a riaffacciarsi sul
Mar Egeo.
Nel 404 a.C. Atene, abbandonata da tutti gli alleati, dopo aver
profuso tutte le sue energie è costretta alla resa. Le condizioni di pace
imposte da Sparta sono tali da porre fine alla sua potenza politica: Atene deve
rinunciare all'impero, demolire le Lunghe Mura e le fortificazioni del Pireo,
consegnare tutte le navi tranne dodici, riammettere i fuoriusciti oligarchici e
allearsi con Sparta.
DECADENZA DELLA POLIS
L'emergere dei grandi Stati territoriali,
l'affermarsi della figura del politico di professione, il ricorso a milizie
mercenarie sono alcuni tratti caratteristici della crisi in cui versa la polis
nel IV secolo a.C. Anche se l'assetto istituzionale rimane in apparenza stabile,
cambia radicalmente il rapporto tra la città e l'individuo, che non si
sente più parte di una comunità unita da vincoli indissolubili di
natura politica, culturale, etica e religiosa.
Di fronte alla crisi delle
istituzioni tradizionali, l'uomo greco si pone degli interrogativi. L'oratore
Isocrate, contro gli eccessi della democrazia, propone l'ideale di una
democrazia moderata, in cui l'Areopago eserciti di nuovo una funzione
preponderante. Di fronte agli antagonismi tra le città, aspira ad una
unione panellenica che preveda l'alleanza con Sparta con precise indicazioni
anti-persiane. L'oratore Demostene assurge a difensore della democrazia ateniese
contro Filippo di Macedonia.
La crisi della polis ripropone il problema di
una formazione della classe politica, che Isocrate vede formata sulla base della
retorica (= «arte del dire»), mentre il filosofo Platone, che comincia
la sua speculazione filosofica da questi problemi, considera indispensabile lo
studio della filosofia come materia formativa del buon dirigente politico,
arrivando a teorizzare una città ideale guidata dai filosofi.
Al
declino della polis si accompagna uno stato di guerra quasi ininterrotto dal 431
al 338 a.C., causato dal fallimento dei tentativi di egemonia
imperialista.
Sparta, succeduta ad Atene nel dominio di una vasta parte del
mondo greco, esercitò un'egemonia non meno dura di quella ateniese:
impose alle poleis greche di accogliere guarnigioni e governatori militari, di
versare un tributo, di introdurre una costituzione oligarchica, e si
rivelò incapace di soddisfare le loro complesse esigenze. L'impero
spartano, sostenuto inizialmente dall'alleanza con la Persia, che
recuperò la sua sovranità sulle poleis greche dell'Asia Minore, fu
abbattuto definitivamente nel 371 a.C. nella battaglia di Leuttra, dalle truppe
tebane.
A Sparta successe la rivale Tebe, che per circa un decennio
cercò di svolgere il ruolo di Sparta per terra e, per un periodo ancora
più breve, quello di Atene per mare. L'egemonia tebana non fu tanto
fondata su solide basi economiche, politiche e culturali, quanto piuttosto
sull'esito fortunato delle iniziative del generale tebano Epaminonda, che
inaugurò una tattica molto più evoluta del consueto scontro di due
eserciti: l'ordine obliquo con attacco sul fianco. Nella battaglia di Mantinea
del 362 a.C. la morte di Epaminonda mise fine all'ascesa tebana.
Una nuova
potenza apparve all'orizzonte, la Macedonia, Paese di stirpe greca considerato
tradizionalmente arretrato e inoffensivo. Filippo II di Macedonia provvide a
riorganizzare l'esercito, creando la falange macedone, una formazione compatta
di fanti disposti su file, armati di una lunga lancia detta sarissa, e condusse
un'accorta politica di espansione verso oriente e il Mar Egeo settentrionale.
Intuendo che la debolezza delle poleis greche stava tutta nel cronico
municipalismo e nei continui conflitti fra città e città, Filippo
seppe abilmente inserirsi nel gioco come alleato di questo o di quel contendente
e diventò nel giro di un ventennio (359-336 a.C.) l'arbitro del mondo
greco.
FAMIGLIA, EDUCAZIONE, SOCIETÀ
Nel mondo greco la famiglia è
un'istituzione sociale che comprende non solo i coniugi e i loro figli, ma tutti
i discendenti di un antenato comune. Alla base della sua esistenza c'è il
possesso di terre che, pur appartenendo alla famiglia nel suo insieme, sono
amministrate dal capo famiglia che ne divide le rendite tra i membri.
La
società greca è dominata dagli uomini. Nella classificazione degli
uomini di Aristotele il vero uomo è l'animale politico per natura e la
sua figura nasce e si definisce nell'opposizione a figure che gli sono
complementari: la bestia, il barbaro, lo schiavo, la donna.
Mentre gli
uomini si occupano delle attività produttive, il compito delle donne
è di assicurare la trasmissione del patrimonio per mezzo della
procreazione di figli legittimi, e di permetterne la conservazione con una
amministrazione oculata degli affari domestici.
In tutto il territorio
greco per cinque secoli di storia (VIII-III secolo a.C.) alle donne sono
riservate le stesse mansioni: filare la lana, preparare i pasti, distribuire il
lavoro alle ancelle; mentre le virtù femminili per eccellenza sono il
silenzio, la sottomissione, la pudicizia.
Le case del ceto medio
riproducono anche da un punto di vista architettonico la distinzione tra i
sessi: la zona più interna della casa, il gineceo, è riservata
alle donne (signore, figlie, schiave), mentre i locali più aperti verso
l'esterno sono destinati agli uomini che vi ricevono gli amici e vi conducono la
loro vita sociale.
La vita sociale per l'uomo greco, in particolare
ateniese, si svolgeva soprattutto fuori della famiglia e della casa. La presenza
degli schiavi (un ateniese benestante ne possiede una cinquantina, mentre il
cittadino medio può possederne una decina) consentiva molto tempo libero
dalle occupazioni lavorative. Molti erano i luoghi in cui si svolgeva la vita
sociale degli uomini: essi si incontravano nell'agorà dove si discuteva
di affari, di politica e di filosofia, nell'assemblea popolare in cui si
decidevano le questioni cittadine, nei teatri dove si elaborava e trasmetteva la
cultura collettiva della polis, nelle palestre in cui le attività
sportive erano anche funzionali all'addestramento militare.
Le donne, che
non disponevano di alcun diritto politico o giuridico, come gli schiavi,
vivevano confinate nel gineceo e varcavano di rado la soglia di casa per lo
più in occasione di feste religiose.
La mancanza di vita sociale
limitava per le donne anche gli stimoli intellettuali. Nell'Atene del V secolo
non si conosce nulla di paragonabile a quanto avvenne nel VI secolo a.C.
nell'isola di Lesbo dove la poetessa Saffo fu promotrice dell'educazione
amorosa, poetica e cultuale di giovinette di elevata condizione, radunate in una
specie di circolo.
L'unica eccezione ateniese al regime di emarginazione
culturale e sociale nei confronti delle donne era rappresentata dalle etere
cioè dalle cortigiane che potevano uscire liberamente, partecipare ai
banchetti con gli uomini e, se erano compagne di uomini illustri, «tenere
salotto». La più famosa di esse, Aspasia, compagna di Pericle, di
origine straniera, secondo il biografo Plutarco «dominava gli uomini di
Stato e ispirò ai filosofi una grande e sincera
ammirazione».
Uno statuto del tutto particolare regolava la vita delle
donne spartane che ricevevano dallo stato un'educazione simile a quella degli
uomini e godevano di una libertà eccezionale nel mondo greco; esse non
erano relegate negli appartamenti femminili, governavano la casa con pieni
poteri e negli affari pubblici esprimevano liberamente il loro parere sulle
questioni più importanti, al punto che Aristotele, avvezzo al costume
familiare ateniese, le accusò di dissolutezza. Anche i doveri coniugali
delle spartane erano ridotti; del resto i mariti pranzavano alle tavole comuni e
trascorrevano la maggior parte del tempo nelle leschai (= «case per
uomini»), quando non adempivano ai doveri militari.
Sparta è,
al pari di altre comunità guerriere, l'esempio di una società
maschile in cui gli uomini sono assorbiti quasi esclusivamente dal mestiere
della guerra, mentre la condizione della terra e i lavori manuali sono riservati
ad un ordine inferiore (gli Iloti). In una società così
organizzata il matrimonio non implica alcun legame permanente tra uomo e
donna.
Al contrario ad Atene il matrimonio costituisce il fondamento stesso
dello status delle donne. Di questo matrimonio la giovane non è
responsabile poiché l'accordo per il quale essa entra nella casa dello
sposo viene combinato dal suo tutore, padre o fratello che sia. La dote,
consistente in oggetti preziosi o monete o talora da un bene immobile,
costituisce la dimostrazione della legittimità del matrimonio. In caso di
scioglimento dello stesso (il marito può ripudiare la moglie) la dote
deve essere restituita alla famiglia di origine.
Anche nel campo
dell'educazione gli stili di vita di Sparta e di Atene si contrappongono
nettamente.
A causa del loro numero esiguo gli spartiati discendenti dei
conquistatori della Laconia erano costretti, per assicurarsi la
continuità del loro dominio su una popolazione ostile, a forgiare i loro
figli fin da bambini al coraggio e alle arti marziali. Mentre le giovinette di
Atene vivevano recluse, quelle di Sparta praticavano molti sport (lotta, corsa,
lancio del disco e del giavellotto) e si abituavano a mostrarsi nude in
pubblico. Si forgiavano in questo modo madri di famiglia robuste e vigorose
destinate a dare a Sparta figli sani e forti. Per i neonati deformi o con tare
fisiche era abituale e obbligatoria la soppressione.
A Sparta il maschio a
sette anni era affidato allo Stato, al quale sarebbe appartenuto fino alla
morte. Il rituale educativo spartano prevedeva la divisione in classi di
età e la presenza di riti di passaggio da una classe all'altra.
L'educazione dei giovani spartani consisteva nell'imparare ad ubbidire,
sopportare la fatica e vincere nella lotta. Per questo essi dovevano camminare
scalzi, ricevevano un solo mantello per tutto l'anno, si bagnavano e ungevano
d'olio molto raramente, erano frustati crudelmente per qualsiasi colpa e nei
pasti comuni non era dato loro cibo sufficiente perché cercassero di
rubare viveri e apprendessero così l'ardire e l'astuzia.
Ad Atene,
invece, dove fino a tarda età non esistettero scuole regolari, il padre
di famiglia poteva liberamente educare i suoi figli da sé oppure
affidarli ad altri fino all'età di 18 anni, quando i giovani divenivano
cittadini e iniziavano la vita civica.
Per il giovane ateniese una parte
dell'istruzione era legata alla vita sociale. Il figlio dell'artigiano imparava
dal padre in bottega il suo mestiere; gli apprendisti di architetti, pittori,
scultori, medici fruivano di insegnamento professionale diretto; i figli dei
nobili avevano uno schiavo insegnante che li avviava all'educazione letteraria,
ma tutti quanti si formavano soprattutto nei luoghi in cui si svolgeva la vita
sociale.
La paidéia greca, cioè l'educazione dei giovani,
aveva come fine la formazione di uomini belli e forti nel fisico ed equilibrati
nella mente. L'educazione delle classi superiori prevedeva studi di lettere,
musica ed esercizi ginnici. Perno degli studi letterari era Omero, considerato
dai Greci l'educatore per eccellenza, poiché insegnava tutto ciò
che un uomo degno di questo nome doveva conoscere in campo religioso, politico e
morale. Di origine antichissima era lo studio della musica (il termine musica
è connesso con le Muse, le dee che presiedevano a tutte le
attività artistiche e intellettuali dell'uomo). L'apprendimento del canto
e degli strumenti musicali era considerato la base di ogni educazione liberale.
Antico era pure il gusto dei Greci per gli esercizi fisici. Le caratteristiche
tipiche della ginnastica greca erano la nudità completa dell'atleta
(ginnastica deriva da gymnos = «nudo») e l'abitudine di ungersi di
olio. Lo sport per eccellenza era la lotta che aveva dato il suo nome alla
palestra (da palé = «lotta»).
Nella seconda metà
del V secolo a.C. in materia di educazione si inserisce l'attività dei
Sofisti. Maestri di dialettica, conferenzieri itineranti che tenevano lezioni a
pagamento, essi insegnavano sotto il nome generale di filosofia tutto il sapere
del tempo. Per essi anche l'areté, la virtus dei Latini, cioè
l'insieme delle qualità che fanno l'uomo eccellente poteva essere
insegnata; per questo i Sofisti furono denigrati e derisi dal teatro
antico.
Ma in una società dove occorre che i dirigenti politici
acquistino il talento necessario per parlare innanzi alle assemblee, la
sofistica non è altro che l'insegnamento dei mezzi necessari per parlare
in pubblico e per persuadere della bontà delle proprie
tesi.
L'insegnamento della retorica (arte di parlare in modo efficace ed
ornato) e della filosofia diventa dunque necessario per preparare uomini di
governo in una società che va moltiplicando e variando le sue esigenze
intellettuali.
Il livello di vita della famiglia greca è nel
complesso modesto. Neppure le maggiori famiglie si permettono lussi paragonabili
a quelli conosciuti più tardi dalle ricche famiglie romane. La morale
prevalente nel regime democratico impone un modo di vivere sobrio e modesto e
condanna la vita troppo comoda e lussuosa dei ricchi.
La maggior parte
della popolazione per tutto l'arco della storia delle città greche vive a
livello di sopravvivenza. Il cibo è scarso e povero (pane, olive,
formaggi e qualche ortaggio sono gli alimenti base), le abitazioni anguste e mal
illuminate, i livelli igienici minimi. Ciò nonostante, salvo periodi di
carestie, la sopravvivenza alimentare e la casa erano garantite a tutti i
cittadini.
Quando in alcune città greche, con lo sviluppo dei
traffici marittimi e delle iniziative commerciali, si crearono patrimoni
costituiti da beni mobili in grado di competere con quelli costituiti da beni
immobili, la potenza economica delle proprietà terriera diminuì e
con essa anche il prestigio delle famiglie che da generazioni la possedevano. A
queste si affiancarono allora nuove generazioni di commercianti e imprenditori
di traffici marittimi.
L'agricoltura e i mestieri manifatturieri e
artigiani erano le forme di lavoro indipendente più apprezzate nel mondo
greco, dove nulla era disprezzato quanto il lavoro dipendente da un padrone.
Godevano di scarsa stima coloro che esercitavano professioni intellettuali
dietro compenso, vale a dire medici, insegnanti di retorica e filosofia,
indovini, astronomi. Solo alla fine del V secolo a.C. in Atene si iniziò
un movimento ideologico grazie al quale gli intellettuali sostennero e difesero
la dignità e la moralità del loro lavoro, cosicché la
classe dirigente venne largamente composta di elementi intellettuali,
soprattutto oratori e retori.
Coppa del V sec. con scene di vita scolastica ad Atene
AGONISMO E GIOCHI PANELLENICI
Lo spirito agonistico trovò
nell'antica Grecia forme di espressione particolarmente ricche e suggestive. Le
dimensioni e la struttura stessa delle comunità greche favorivano la
tendenza alla competizione; non solo nessuna di esse fu mai tanto forte da
assoggettare in maniera definitiva tutte le altre, ma all'interno delle poleis
stesse nessun gruppo sociale poté mai considerarsi egemone in senso
assoluto.
Che il gusto per la competizione e con esso lo spirito di
emulazione caratterizzassero la mentalità e la società greca fin
dalle origini lo dimostrano i versi del poeta contadino Esiodo quando dice che
«il vasaio porta invidia al vasaio, il fabbro ce l'ha con il fabbro e il
mendico ha gelosia del mendico e il cantore del cantore»; o quando
distingue tra le due divinità che personificano la Contesa (Eris), quella
che «suscita la guerra e la rissa, e non v'è mortale che l'ami»
da quella che invece è «benefica ai mortali», per la quale
«il vicino emula il vicino che è sollecito al
guadagno».
La concezione agonistica dell'esistenza è sostenuta
dal concetto greco di aretè (= «virtù»). Il termine non
si riferisce alla vita morale dell'individuo, ma indica nobiltà,
capacità, successo, imponenza. L'aretè è propria di
individui che si distinguono come singoli, ma che si adattano anche al giudizio
della comunità, dal momento che è questa che dà al singolo
la conferma del suo valore. La ricompensa dell'aretè è, fino alla
più tarda età classica, la gloria e l'onore.
Un simile
ideale, già presente nei poemi omerici, si realizza nell'agòn (=
«competizione», da cui agonismo), che in guerra si esprime nel duello
e in pace nella gara sportiva. Prodotto di una società aristocratica,
questo ideale col tempo si democratizzò, coinvolse l'intera cittadinanza,
divenne amor di patria, ma tutta la vita dell'uomo greco in ogni suo aspetto
rimase sotto l'insegna dell'agonismo. Nei tribunali le parti in causa gareggiano
per ottenere un verdetto favorevole; in teatro gli attori si chiamano
protagonista, deuteragonista, tritagonista e anche loro gareggiano in una lotta
che è al tempo stesso esposizione di concetti antitetici e gara di
abilità. Anche le gare atletiche fanno parte di questo quadro.
I
giochi panellenici si svolgevano a scadenze fisse (ogni quattro o due anni),
erano connessi a feste religiose ed erano uno dei rari momenti in cui i Greci
deposte la armi in virtù di una tregua sacra, riscoprivano di appartenere
ad un'unica comunità per lingua, religione e cultura. A Corinto
sull'Istmo si svolgevano i giochi Istmici, a Delfi quelli Pitici, in Argolide,
regione del Peloponneso, i giochi Nemei, a Olimpia nel Peloponneso venivano
istituiti i giochi Olimpici. La tradizione mitica collega questi ultimi al mito
di Pelope e Ippodamia, secondo il quale il primo avrebbe dovuto vincere in gara
il padre di Ippodamia, Enomao, per averla in sposa, andando incontro alla morte
in caso di fallimento. È possibile vedere in ciò un riflesso dei
riti di iniziazione che ratificavano l'uscita dall'adolescenza dei membri della
comunità. In età storica il legame con la religione permane, ma
prevale l'aspetto agonistico.
Ai giochi erano ammessi tutti i cittadini del
mondo greco con esclusione delle donne sposate, degli schiavi e dei
barbari.
Le gare classiche erano la corsa, la lotta, il pugilato, il
pancrazio (lotta e pugilato), il pentathlon (gara composta da cinque
specialità: corsa, salto, lotta, lancio del disco e del giavellotto), la
corsa con le quadrighe, le corse di carri trainati da muli, la corsa a cavallo e
quella con l'armatura. Da esclusivamente sportive le gare divennero in seguito
anche letterarie con prove di poesia e di musica. Gli atleti furono inizialmente
dilettanti, poi per la necessità di continui allenamenti divennero
semiprofessionisti con sovvenzioni da parte delle città che acquistavano
prestigio per i successi di un loro campione.
Celebrati per la prima volta
secondo la tradizione nel 776 a.C. e ripetuti ogni quattro anni, i giochi
olimpici furono usati come sistema di datazione fino alla tarda
antichità. Per designare un anno si specificava quale posto occupasse in
una determinata Olimpiade, cioè nell'intervallo di quattro anni tra una
festa e l'altra.
Le vittorie olimpiche del resto avevano una risonanza tale
da essere usate come mezzo di propaganda politica: di qui la frequente
partecipazione dei tiranni soprattutto alle prestigiose gare ippiche. I
vincitori erano onorati da tutti e cantati da poeti come Simonide e Pindaro;
ricevevano in premio una corona di ulivo, acquistavano fama di semidei e
potevano giovarsene anche a fini politici, come fece Alcibiade, ispiratore della
spedizione ateniese in Sicilia del 415-413 a.C. e vincitore delle Olimpiadi del
416 a.C.
Ogni quattro anni in onore di Apollo Pizio si celebravano a Delfi
i giochi Pitici organizzati dagli anfizioni; le gare erano musicali e ginniche
vi avevano parte anche le orazioni di retori e le gare di poeti; e al vincitore
andava una corona di alloro.
I giochi Istmici e Nemei avevano luogo ogni
due anni. I primi erano celebrati in onore di Poseidone nel suo santuario
sull'istmo di Corinto e comprendevano gare atletiche, ippiche, ma anche
competizioni di musica, recitazione, pittura. Dopo le Olimpiadi erano i giochi
più importanti. Nel 480 a.C. in occasione dei giochi Istmici i Greci
concertarono il loro piano di guerra contro i Persiani. Nei giochi del 196 a.C.
il console romano Tito Quinzio Flaminino proclamò la liberazione della
Grecia dal giogo macedone.
I giochi nemei sacri a Zeus Nemeo si svolgevano
nella pianura nemea in Argolide, dove Eracle avrebbe celebrato l'uccisione del
leone Nemeo. La corona per i vincitori fu in un primo momento di oleastro, in
seguito, come per gli Istmici, fu mutata in una di sedano.
IL TEATRO
La grande stagione del teatro greco
classico si colloca nell'ambito di istituzioni religiose, come le feste
Dionisiache introdotte secondo la tradizione da Pisistrato, che riportano
l'attività teatrale ad una probabile origine cultuale. Le feste legate al
culto di Dioniso sono la trasposizione in epoca storica degli antichi riti
connessi con i cicli stagionali e con i culti della fecondità, in cui si
svolgevano processioni e canti da cui il teatro trasse origine.
In
occasione delle feste Dionisiache si bandivano concorsi tragici in cui tre
tragediografi presentavano tre tragedie e un dramma satiresco (farsa con
elementi mitici) e si contendevano la palma della vittoria. Il carattere
ufficiale di queste manifestazioni si deduce dal fatto che i cittadini
più ricchi erano obbligati a sovvenzionare l'allestimento di un coro
(questa liturgia si chiamava «coregia»), mentre i meno abbienti
ricevevano un'indennità (obolo) per poter partecipare come
spettatori.
Argomento del teatro è il mito, il cui repertorio di
base è costituito da Omero e dal ciclo epico. Il carattere didattico
della tragedia si manifesta nella rappresentazione attraverso personaggi mitici,
o più raramente storici, di sentimenti contrapposti atti a suscitare
nello spettatore prese di posizione nette a favore dell'una o dell'altra tesi.
Il risultato che il tragediografo si propone di ottenere è la catarsi,
ossia la «purificazione» dello spettatore attraverso la
compartecipazione ai casi rappresentati sulla scena. Nel V secolo il teatro
attraversa un periodo d'oro. Il primo grande tragico Eschilo (525/4-456/5 a.C.)
si propone di discutere nelle sue opere temi complessi e tra loro intrecciati;
fra cui quelli delle vicende istituzionali della polis: il conflitto tra due
religiosità, quella mediterranea e quella indoeuropea, il rapporto tra
l'agire del singolo e le colpe della stirpe, che non limitano la libertà
e la responsabilità umane, il tema del dolore e della giustizia divina,
la storia della società umana e delle sue strutture, segnatamente delle
istituzioni di Atene.
Sofocle (497-406 a.C.) pone al centro dei suoi
interessi il problema dell'uomo e del suo comportamento nei confronti degli dei,
dei suoi simili e di se stesso e il rapporto tra la legge morale e le
istituzioni dello Stato. L'essenza della sua tragicità consiste nel
riconoscere la difficoltà o, più spesso, l'impossibilità di
conciliare le leggi non scritte con la legalità ufficiale. Egli ci
presenta queste tematiche incarnate da grandi personaggi che spiccano per la
loro individualità, la quale d'altra parte emerge proprio nel momento
della loro sconfitta.
L'opera di Euripide (480-406 a.C.) riflette un
momento di crisi della storia della polis, segnata dalle vicende drammatiche
della guerra del Peloponneso. Polemico e critico nei confronti della
realtà politica dell'Atene del suo tempo, il poeta si rivolge al mito
rielaborandolo liberamente, introduce i sentimenti e le passioni dell'uomo, in
un quadro pessimistico della vita determinata dal caso in cui le divinità
non coprono più tutti i valori. Non sono escluse le implicazioni
filosofiche dei problemi posti dalla vita e dalla società affrontati in
digressioni intellettualistiche: sulla fede degli dei, sulla superiorità
della democrazia rispetto alla tirannide.
ALESSANDRO MAGNO
L'eredità di Filippo II fu raccolta
dal figlio Alessandro. Schiacciato ogni tentativo di rivolta nel mondo greco,
Alessandro, forte della sua genialità militare e delle sue truppe,
intraprese una politica antipersiana. Dopo la vittoriosa battaglia al fiume
Granico nel 334 a.C. cacciò dalle città greche dell'Asia Minore
gli oligarchi che le controllavano in nome dei Persiani. Incontrò
resistenze solo a Mileto e ad Alicarnasso mentre quasi ovunque fu accolto come
un liberatore. Continuando la propria avanzata ebbe sotto controllo tutta l'Asia
Minore e con la vittoria di Isso nel 333 a.C. si impadronì delle
città fenicie e dell'Egitto. Qui fu accolto favorevolmente dagli Egiziani
che lo incoronarono con le due corone, simbolo del potere su tutto il
territorio, l'Alto e il Basso Nilo. In una posizione felice, sul delta del
fiume, fondò la città di Alessandria destinata a diventare il
principale centro della cultura ellenistica. In Egitto Alessandro
cominciò ad attuare il riordinamento dell'amministrazione dello Stato
secondo uno schema che fu successivamente esteso a tutto l'impero:
organizzò una potente ed efficiente burocrazia incaricata
dell'amministrazione civile e separata da quella militare e da quella
finanziaria. Alessandro si mosse poi verso la Mesopotamia dove avvenne lo
scontro definitivo col re persiano Dario III. A Gaugamela nel 331 a.C. i
Persiani furono definitivamente sconfitti.
Durante le sue spedizioni
Alessandro si preoccupò sempre di non mettersi in contrasto con le
popolazioni conquistate. Il suo scopo era di trasformare le conquiste militari
in legami di unità politica tra i diversi popoli; per questo
favorì i matrimoni misti ed accolse abitudini e usi dei popoli
vinti.
Quando Dario III scomparve, ucciso da un governatore persiano,
Alessandro si considerò il legittimo successore degli imperatori
persiani: cominciò ad affidare il comando civile delle varie regioni a
nobili locali, arruolò tra le sue truppe soldati persiani e delle altre
aree conquistate. Tra il 327 e il 325 a.C. tentò una spedizione verso
l'India che lo condusse in regioni mai viste prima dagli Europei, a contatto con
civiltà diversissime. L'iniziativa fallì per l'opposizione dei
soldati che si sentivano troppo lontani dalle basi di partenza; tornato in
Occidente, Alessandro iniziò un'opera di controllo del grande impero che
aveva messo assieme. Morì nel 323 a.C. a Babilonia mentre stava facendo
preparare un'immensa flotta che avrebbe dovuto essere impiegata nella
esplorazione e nella conquista della penisola arabica.
Scomparso
Alessandro, i suoi generali si contesero la supremazia sull'impero. Dopo un
quarantennio di conflitti fra i Diadochi (= «successori»), la
situazione si stabilizzò con la costituzione di tre vasti reami: il regno
d'Egitto (sotto la dinastia dei Tolomei, che sopravvisse fino al 30 a.C.);
l'Asia sotto i Seleucidi fino al 63 a.C.; la Macedonia sotto gli Antigonidi fino
alla battaglia di Pidna del 168 a.C.
L'espansione del regno di Alessandro Magno
L'ELLENISMO
Con il termine «Ellenismo» si
intende il periodo che va dal IV secolo a.C. al VI secolo d.C., caratterizzato
dalla diffusione della lingua e della cultura greca in tutto il mondo allora
conosciuto, l'oikoumène (= «la terra abitata»), corrispondente
per i Greci al bacino del Mediterraneo e al Vicino Oriente.
L'ellenismo ha
come termine cronologico le date del 335 a.C. (includendo anche il periodo di
Alessandro Magno) e del 31 a.C. data della battaglia di Azio e assoggettamento
dell'Egitto ai Romani. C'è chi considera come data conclusiva il 529 d.C.
anno in cui l'imperatore Giustiniano chiude la scuola neoplatonica di Atene,
atto esteriore che sancisce la conclusione della civiltà classica. In un
primo tempo il centro gravita verso oriente, ad Alessandria d'Egitto, in seguito
si sposta ad occidente a Roma, che diviene anche il punto di raccolta di molti
letterati del tempo.
La diffusione della cultura greca nell'area
mediterranea è legata a particolari contingenze storiche. Alessandro
Magno, conquistando l'Oriente unifica anche se per breve tempo un territorio
vastissimo, cercando di attuare una fusione tra conquistatori e conquistati
(egli stesso sposa una principessa barbara, Rossane). Alla sua morte nei vari
regni i monarchi macedoni continuano a circondarsi di una cerchia di
intellettuali di formazione culturale greca. Veicolo di diffusione della cultura
greca sono dunque le truppe e i funzionari di Alessandro.
Anche se le
tradizioni culturali e linguistiche proprie delle varie regioni non furono
perdute, fu il greco a divenire lo strumento di comunicazione per tutti i
popoli, la lingua comune (koiné), costituita essenzialmente dal dialetto
attico semplificato nelle sue strutture morfosintattiche e aperto a termini e
locuzioni di altri dialetti e delle lingue orientali.
Da un punto di vista
politico il più importante aspetto del periodo ellenistico è la
scomparsa della polis, fatto che condiziona tutta la vita sociale e spirituale
del tempo. Al posto della polis, che conserva solo qualche funzione militare ed
economica, subentrano le grandi monarchie territoriali, divise fra loro da
confini geografici, non da caratteri etnici o culturali. Esse dispongono di
eserciti permanenti e di una burocrazia organizzata, il che significa che il
cittadino non partecipa più alla vita della città, né come
soldato, né come uomo politico. La vita politica tende a diventare un
mestiere. Abbattute le frontiere cittadine negli Stati ellenistici ogni abitante
può diventare cittadino di una qualsiasi altra città trasferendo
semplicemente la sua residenza. Ne consegue che scompaiono le differenze tra
cittadini e stranieri, mentre restano naturalmente e talvolta si aggravano
quelle tra liberi e schiavi, tra ricchi e poveri, tra potenti e umili.
La
società classica presentava un mondo di valori in certo senso
precostituito cui l'individuo doveva adeguarsi, mentre quella ellenistica
è una società aperta in cui gli schemi di giudizio, i valori sono
lasciati ad una scelta razionale dell'individuo. Paradossalmente quindi, pur
avendo un governo assolutistico, la società ellenistica è
più libera di quella classica. La società ateniese, così
democratica, considerava l'obbedienza alla polis un valore ovvio i cui principi
non erano messi in discussione.
La società ellenistica è
invece una società permissiva in cui possono convivere atei, credenti,
mistici, saggi, scienziati.
A differenza dei valori collettivi del periodo
classico, ora la società è basata sull'individualismo e si
indirizza verso nuovi valori: l'arte per l'arte, il sentimento e la fantasia
invece dell'ideale classico di razionalità, il sapere scientifico, la
fede religiosa aperta ai culti orientali che riempiono la vita soprattutto a
livello individuale. Cambia anche la condizione sociale della donna per effetto
di una generale emancipazione estera ai diversi livelli della società; la
donna esercita ora una profonda influenza anche nella vita politica.
Nel
crollo dei valori tradizionali la cultura diventa autonoma da ogni legame
diretto con la vita politica, è un valore fine a se stesso. Si afferma
una concezione elitaria dell'arte. L'intellettuale non è più al
servizio della comunità cittadina non si rivolge ad un grande pubblico,
ma ad una ristretta cerchia di dotti capaci di comprendere la perfezione
stilistica, filologica ed erudita della sua produzione.
Si assiste alla
formazione di grandi organizzazioni culturali (biblioteche, centri di ricerca)
curate per la prima volta dallo Stato. Si tratta di strutture sovvenzionate da
monarchi che si dedicano a questo mecenatismo per ragioni di prestigio e che
comporta il rischio di servilismo per la classe intellettuale che vi partecipa.
Mentre in precedenza le biblioteche erano proprietà di privati e
possederle voleva dire essere ricchissimi, in questo periodo vengono fondate dai
monarchi biblioteche pubbliche che accolgono i classici del passato messi a
disposizione degli studiosi. La più nota è la biblioteca di
Alessandria, che sotto Tolomeo II Filadelfo (285-246 a.C.) raggiunse i 500.000
volumi che abbracciavano tutto lo scibile del tempo.
Il volume era
costituito da strisce di papiro unite in senso verticale e da altre in senso
orizzontale pressate insieme. Si scriveva sul recto, mentre l'operazione era
più difficile sul verso. Più tardi venne adottata la tecnica del
codex, che invece di essere costituito da una striscia continua arrotolata, era
una specie di grosso quaderno. Il materiale era però altamente
infiammabile e la biblioteca di Alessandria nel tempo fu distrutta a causa di
successivi incendi (al tempo di Cesare, degli Arabi).
Nel Museo,
associazione consacrata alle Muse, annesso alla biblioteca, venivano ospitati i
dotti impegnati nelle ricerche. Il loro lavoro consisteva nell'edizione critica
delle opere. Con i manoscritti e le diverse copie di uno stesso testo che
avevano a disposizione cercavano di ricostruire e fissare il testo originario;
quando si trovavano di fronte a difficoltà di interpretazione (parole
diverse, parti aggiunte o mancanti) compilavano delle note scritte dette scolii.
Tutto questo in base al principio che per comprendere bene il pensiero di un
autore occorresse possedere il testo esatto delle sue opere. La nascita della
filologia (disciplina che ricostruisce e interpreta scientificamente testi
letterari e documenti linguistici) e la diffusione delle biblioteche porta ad
alcune considerazioni: in un periodo di guerre distruttrici la raccolta delle
opere letterarie significa che la cultura era intesa come patrimonio perenne da
tramandare ai posteri. Si era sviluppata l'idea che la cultura classica fosse in
un certo senso ormai conclusa e quindi fosse possibile fare il punto su di essa,
delinearne le caratteristiche, descriverne la fisionomia, fissarne i contenuti
culturali tramandati.
Proprio in questo periodo nasce l'idea di
classicismo, vale a dire il concetto dell'esistenza per ogni genere letterario
di scrittori che hanno toccato il vertice massimo raggiungibile dall'artista; il
fine dei letterati diventa quindi l'imitazione di questi vertici, il tentativo
di arrivare ai loro stessi livelli, dal momento che è impossibile
superarli.