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ITINERARI - CULTURA E CIVILTÀ - LA CIVILTÀ MINOICA

LA CIVILTÀ MINOICA

Nel 1899 l'archeologo inglese Arthur Evans diede inizio agli scavi del palazzo di Cnosso a Creta, da lui identificato con il Labirinto (forse da labrys = «ascia bipenne», simbolo cultuale) costruito, secondo leggenda, da Dedalo per il Minotauro. Dal nome di Minosse mitico re dell'isola, Arthur Evans propose di designare la civiltà fiorita a Creta come «minoica»; data la sua diffusione in numerose isole dell'Egeo, ma la civiltà resta però essenzialmente cretese.
Dallo stesso scopritore fu elaborato per l'epoca minoica una suddivisione in tre periodi distinti con i nomi di Antico Minoico, Medio Minoico e Tardo Minoico, ciascuno a sua volta diviso in tre fasi indicate con i numeri romani I, II e III. Altri studiosi, poiché ritenevano troppo astratta la divisione di Evans, fondata sugli elementi ricavati dallo scavo stratigrafico del Palazzo di Cnosso e dall'evoluzione dello stile della ceramica, hanno elaborato un'altra suddivisione basata sulle ripetute distruzioni e ricostruzioni dei palazzi cretesi: periodo pre-palaziale, proto-palaziale, tardo-palaziale, post-palaziale.
Dopo essere passata nel Minoico Antico (III millennio a.C.) attraverso le esperienze tipiche dell'età eneolitica e dell'età del bronzo, Creta raggiunse notevole prosperità nel Minoico Medio (2150-1550 a.C.) e visse il suo periodo più splendido a partire dal Medio Minoico III (1660-1550 a.C. circa) e poi nel Tardo Minoico I e II (1550-1400 a.C.)
In un'epoca in cui le maggiori civiltà fiorivano intorno al Mediterraneo orientale, la civiltà cretese si basò, oltre che su attività agricole e industriali, di caccia e di pesca, soprattutto sul commercio marittimo, grazie alla felice posizione geografica dell'isola prossima al Peloponneso, alla Grecia, all'Asia Minore e all'Egitto.
Secondo gli antichi, con Minosse i Cretesi avrebbero realizzato una talassocrazia (= «dominio sul mare», dal greco thàlassa = «mare» e kràtos = «dominio») nel bacino dell'Egeo. Il mito di Atene, costretta ad inviare al Minotauro un tributo annuale di sette fanciulle e fanciulli destinati al sacrificio, e di Teseo che vince il mostro con l'aiuto di Arianna e libera la sua città dal servaggio, offre indicazioni sull'estensione di questo dominio sul mare.
Sebbene l'agricoltura fosse largamente praticata, attività come la metallurgia, l'oreficeria, l'artigianato tessile e la ceramica, per la loro eccellenza, alimentavano un fiorente commercio di esportazione. L'abilità dei mercanti cretesi era famosa quanto quella degli abitanti della terra di Canaan (i Fenici). Il commercio era attivo con le Cicladi, che si trovavano sotto il dominio cretese, con l'Egitto, l'Asia Minore, la Siria e la Grecia. Il commercio marittimo lasciava al singolo individuo un'autonomia molto maggiore di quanto non consentisse l'agricoltura, che nel mondo antico, specialmente in regioni come l'Egitto dove tutto dipendeva da una complessa regolamentazione del Nilo, imponeva un regime fortemente accentrato.
Gli scavi archeologici hanno portato alla luce palazzi e insediamenti minoici distribuiti su tutto il territorio (Festo, Haghia Triada, Cnosso). Il palazzo rappresenta il fulcro di una comunità insediata nella città e nel villaggio che si sviluppa nel territorio adiacente. È la sede del governo e dell'amministrazione, il punto focale della vita non solo politica, ma anche economica e religiosa. La pluralità dei palazzi induce a pensare che ognuno di essi rappresenti il centro di un'area a sé stante. Per lungo tempo si è creduto che la civiltà cretese non avesse nemici; poiché non si erano ritrovate tracce di fortificazioni si pensava che la supremazia sul mare bastasse a proteggere l'isola. Oggi non si è più così sicuri di questa tesi, infatti sono state rinvenute tracce di fortificazioni.
Nel palazzo, attorno ad una vasta corte centrale sono disposti vari fabbricati destinati ad abitazione, magazzini, servizi, ambienti ricreativi, creando una serie di terrazze, l'una sovrapposta all'altra.
Negli affreschi sulle pareti, come nella decorazione ceramica, si riconosce il gusto per l'arte naturalistica che ritrae scene della vita vegetale ed animale. Signora delle fiere e della natura è la Pòtnia, la divinità femminile per eccellenza, la terra madre che incarna lo slancio vitale e la fecondità ed estende il suo potere su vegetali, animali, uomini. Accanto ad essa la divinità maschile funge da paredro, ossia «compagno subalterno» (dal greco pàredros = «che siede accanto»).
Lo Stato cretese aveva una struttura burocratica con a capo un monarca; il sovrano non rappresentava né un dio, né un discendente degli dei ma era rivestito della suprema dignità sacerdotale. Il rigoroso ordinamento sociale che governava la comunità era sorretto da un complesso sistema giuridico-amministrativo, che prevedeva una gerarchia e un organico di funzionari con mansioni che riguardavano l'approvvigionamento e la redistribuzione delle scorte.
Dalle necessità della corte e dell'amministrazione nacque la scrittura cretese dapprima ideografica, poi sillabica, la cosiddetta lineare A, i cui segni esprimono i suoni sillabici di una lingua incomprensibile. I Micenei, che parlavano greco, la adattarono alla propria, creando una scrittura sillabica (cioè con segni che rappresentano di solito gruppi sillabici, ad esempio po-ti-nija = Potnia = «signora») decifrata nel 1952. Indebolita da una serie di terremoti, che dal 1700 a.C. sottoposero l'isola a ripetute distruzioni, tra il 1500 e il 1400 a.C. la vita dei complessi palaziali finì: causa prima fu forse la rovinosa eruzione del vulcano della vicina isola di Thera, ma certamente non furono estranei a questa fine i Micenei che conquistarono Cnosso verso la fine del XIV secolo a.C.

LA CIVILTÀ MICENEA

Nei documenti ittiti, a partire dal XIV secolo a.C., compare menzione del Paese degli Ahhiyawa, cioè degli Achei, coloro che, secondo i poemi omerici, partirono da tutta la Grecia alla conquista di Troia, città dell'Anatolia nord-occidentale ubicata in una posizione strategicamente e commercialmente importante presso gli stretti che collegavano il Mare Egeo al Mar Nero. Questo fatto, unito alla constatazione che gli abitanti degli insediamenti micenei parlavano un dialetto greco, autorizza ad identificare i termini Achei e Micenei: l'uno attribuito dagli antichi, l'altro dai moderni a popolazioni indoeuropee che scesero in Grecia poco prima del secondo millennio a.C. e vi fecero fiorire, tra il XVI e il XII secolo a.C., la civiltà micenea, così chiamata da Micene, il centro più rappresentativo di tale cultura.
I Micenei, una volta giunti a Creta, appresero la scrittura minoica (lineare A) e la adattarono alle esigenze della loro lingua, un dialetto progenitore del greco. Il fatto che la lineare B micenea si presenti come un adattamento della lineare A minoica propone il problema storico dell'incontro tra Greci e Minoici. Il flusso culturale tra Creta e il continente in un primo momento (XVI secolo a.C.) introdusse nel Peloponneso i germi della cultura minoica, la cui influenza è evidente nell'arte, nella religione e in molte abitudini della vita quotidiana; l'unione con la civiltà continentale produsse la cultura originale che indichiamo come micenea. A questo punto (XV secolo a.C.) il flusso invertì la sua direzione e si tradusse in un breve dominio, anche politico, di un gruppo di Achei sull'isola conquistata.
Nel 1952 l'archeologo inglese Michael Ventris è riuscito a decifrare tavolette di argilla scritte in lineare B. La storia di queste tavolette è curiosa: pare che si siano conservate grazie agli incendi degli archivi dei palazzi di Cnosso, Pilo e Tebe che ne avrebbero determinato la cottura e quindi la resistenza all'azione disgregatrice del tempo. Si tratta di documenti amministrativi, di semplici materiali d'archivio, registri contabili, inventari di uomini, di terreni, di derrate alimentari, di armi. Illuminando un'organizzazione politico-sociale, un'economia, un mondo religioso in parte diverso da quello dei poemi omerici (cui fino alla decifrazione di Ventris era affidata la conoscenza del mondo miceneo), le tavolette hanno dimostrato come la Grecia delle poleis, cioè delle «città», affondi le sue radici nella Grecia dei regni micenei. Nonostante l'evoluzione e le trasformazioni intervenute nel Medio Evo ellenico (XII-IX secolo a.C.), l'eredità della cultura micenea non andò perduta: le maggiori divinità venerate dai Greci sono quasi tutte nominate già nelle tavolette micenee. L'epica antica cantò trasfigurati i ricordi dell'età micenea, e i Greci di età classica identificarono in quest'età eroica la prima stagione della loro storia.
La Grecia di età micenea è frazionata in un certo numero di principati autonomi ciascuno gravitante attorno ad un castello fortificato, i più noti dei quali sono designati con il nome delle rispettive roccaforti: Micene, Argo, Tirinto, Pilo.
Le dimore reali, pur presentando analogie con i palazzi cretesi, hanno dimensioni più modeste e una pianta più regolare, che ha al suo centro una vasta sala, detta mégaron, sorretta da quattro colonne con il focolare in mezzo. Le imponenti cinte di fortificazioni dei palazzi attestano il carattere guerriero di questa civiltà, in cui Atena, la vergine guerriera rappresentata in armi e connessa con la metallurgia, è la dea protettrice delle acropoli.
Tra le vestigia più appariscenti della civiltà micenea sono le tombe monumentali rinvenute a Micene dal famoso archeologo tedesco Heinrich Schliemann (1822-1890), lo scopritore di Troia. Il tipo di tomba più raffinato è costituito dalla tomba a cupola, tholos, in cui un lungo corridoio conduce a una vasta sala circolare, costruita con grandi blocchi di pietra squadrati e disposti ad anelli aggettanti l'uno sull'altro. La «tomba di Atreo» dal nome del mitico padre di Agamennone e Menelao, con il suo ricco corredo e la maschera d'oro sul volto del cadavere, secondo la tradizione egizia, è l'esemplare più celebre delle nove tombe dello stesso tipo rinvenute in questa località.
I regni micenei della Grecia centrale e del Peloponneso si consolidano e prosperano grazie allo sfruttamento sistematico delle risorse agricole (si deve ai Micenei che l'appresero a loro volta dai Cretesi, l'introduzione dell'olivo in Grecia) e ad un sistema amministrativo-burocratico fortemente centralizzato. Dalle tavolette si ricava l'impressione che nessun settore della vita economica, sociale e religiosa si sottragga alle direttive del palazzo, che esercita un rigido controllo su tutto il territorio del regno grazie ad una burocrazia capillare.
La società è decisamente gerarchica: al vertice della piramide sociale è il wanax, che associa potere politico e religioso, essendo sovrano e pontefice; dietro di lui c'è il lawagiètas, «condottiero degli armati», con funzioni anche pontificiali. Al di sotto vi è la schiera dei funzionari.
A capo di comunità locali e autonome unite dal vincolo cultuale sono i basilewes (basilèus in seguito sarà il termine usato per designare il re). Il termine dàmos indica la popolazione dei distretti territoriali; secondo alcuni studiosi il dàmos, ceto agricolo e artigianale, si oppone al laòs, la nobiltà guerriera e fondiaria.
Le attività produttive ci sono note attraverso le minuziose registrazioni degli scribi. Il lavoro appare altamente specializzato. Le iscrizioni accennano a libere professioni come il medico e l'araldo, ma citano soprattutto molti artigiani legati alle arti della tessitura, della ceramica, della metallurgia. Sul gradino più basso della scala sociale vi sono gli schiavi. Si tratta nel complesso di una società in cui sono abbastanza conservati i quadri della società degli Indoeuropei: ci sono nobili e sacerdoti, che dirigono e sfruttano la classe produttrice del dàmos.
Tra il 1400 e il 1200 a.C. si sviluppa il commercio miceneo. Divenuti esperti marinai alla scuola dei Cretesi, i Micenei si sostituiscono ai Cretesi stessi in tutta la vasta area del commercio minoico. La produzione ceramica permette di individuare attraverso il ritrovamento archeologico i percorsi dei marinai micenei; vasi di età micenea sono stati ritrovati lungo la costa siropalestinese, in Egitto, a Cipro, in Albania, nell'Italia peninsulare e insulare. L'espansione micenea verso Oriente e verso Occidente rappresenta l'antefatto della colonizzazione greca; ai Greci, ai Fenici e ai Tirreni (così i Greci chiamavano gli Etruschi) rimasero come eredità le rotte tracciate dai commercianti micenei nel Mediterraneo.
La civiltà micenea termina tra la fine del XIII e l'inizio del XII secolo a.C. L'improvvisa e violenta distruzione delle città, dei palazzi e la progressiva scomparsa degli elementi caratteristici della cultura micenea sono stati per lungo tempo attribuiti alle invasioni di nuove popolazioni indoeuropee di lingua greca, i Dori, che si sarebbero stanziate nei centri prima abitati dai Micenei e poi da questi evacuati appunto verso quest'epoca. Tale invasione è presentata in veste mitologica come il ritorno degli Eraclidi, i discendenti di Eracle (Ercole), che costretti ad abbandonare il Peloponneso dal re di Micene Euristeo, vi ritornarono tra il XII e l'XI secolo a.C. È probabile che vi siano stati altri fattori a determinare la fine della civiltà micenea: cambiamenti di clima con conseguenze negative sulla produzione agricola e soprattutto sconvolgimenti sociali che avrebbero indebolito e rovesciato il potere delle caste dirigenti, logorato anche dalle continue spedizioni e guerre oltre mare fino alle coste anatoliche e alle regioni del Mar Nero.

IL MEDIO EVO ELLENICO

Tra il XII e il IX secolo a.C., ossia tra il mondo dei palazzi cretesi e l'affermarsi delle poleis greche ci fu un periodo oscuro tradizionalmente noto come «Medioevo Ellenico», espressione che vuole stabilire un'analogia con quanto si verificò in Europa con le invasioni barbariche e il collasso degli ordinamenti dell'impero romano. L'assenza di qualsiasi testo scritto (non viene più utilizzata la scrittura lineare micenea), conferisce un'importanza fondamentale ai ritrovamenti archeologici, per la ricostruzione dei processi storici di quest'età.
Gli avvenimenti che seguirono la fine dell'età micenea provocarono l'abbandono dei principali siti micenei, lo spostamento di popolazioni in nuove sedi e la creazioni di nuovi habitat.
Un flusso migratorio verso l'Asia Minore condusse i coloni greci in quelle terre d'Oriente che erano già state frequentate dal commercio miceneo. Consistenti comunità si insediarono nell'isola di Cipro che giocò il ruolo di intermediario con le civiltà del Vicino Oriente. Ma quella che venne più intensamente colonizzata fu la costa anatolica occidentale, dalla Troade a Nord, fino all'altezza di Rodi, a Sud. Quest'area con le sue città di Focea, Smirne, Efeso, Mileto e Alicarnasso e le isole di Lesbo, Chio, Samo e Rodi fronteggianti la costa, divenne parte integrante della madre patria ellenica e uno dei poli del suo sviluppo economico, civile e culturale.
Combinando assieme dati archeologici e documentari (la poesia epica) è possibile individuare alcune innovazioni di quest'età: una ceramica a motivi geometrici, detta protogeometrica (fiorita tra l'XI e il X secolo a.C.), il cui repertorio decorativo in seguito si arricchisce occupando l'intera superficie del vaso e includendo la rappresentazione stilizzata di figure (ceramica geometrica: IX-VIII secolo a.C.); la sostituzione a partire dal 1000 a.C. del bronzo con il ferro nella fabbricazione degli utensili; il passaggio dal rito funebre a inumazione al rito dell'incinerazione.
Risalgono a quest'epoca due grandi realizzazioni dello spirito greco: l'invenzione della scrittura alfabetica e l'epica omerica.
Con il declino della civiltà micenea il controllo del commercio marittimo nel Mediterraneo fu assunto dai Fenici. Dai rapporti del mondo egeo con i Fenici si determinò la ricezione da parte degli Elleni della scrittura alfabetica.
Lo storico greco Erodoto afferma che i «Fenici venuti con Cadmo (re leggendario) introdussero molte conoscenze, fra le altre quella delle lettere dell'alfabeto che i Greci non possedevano prima». Partendo dalla scrittura alfabetica fenicia, i Greci svilupparono una grafia fonetica completa (in cui ad ogni fonema consonantico o vocalico corrisponde un segno grafico, una lettera).
Cinque segni dell'alfabeto fenicio, che rappresentavano suoni della lingua semitica non presenti in greco, furono utilizzati per indicare le vocali, che la lingua fenicia non esprimeva graficamente.

I DIALETTI GRECI INTORNO AL IX SECOLO A.C.

La storia dei dialetti greci permette di definire a grandi linee la diffusione delle stirpi greche nell'area egeo-mediterranea. Si distinguono quattro gruppi dialettali, che rappresentano anche le successive ondate di invasioni: 1) il gruppo ionico-attico (comprendente lo ionico parlato in Eubea, in parte delle Cicladi, nella regione dell'Asia Minore che fu chiamata ionia, e l'attico parlato in Attica); 2) il gruppo arcadico-cipriota (attestato in Arcadia, regione del Peloponneso, e a Cipro); 3) il gruppo eolico (attestato in Tessaglia, in Beozia, nell'isola di Lesbo e nella regione lungo la costa dell'Asia Minore detta Eolide); 4) il gruppo dorico (comprendente il dorico parlato in parte del Peloponneso, a Creta nella Doride in Asia Minore e, affini al dorico, i dialetti nord-occidentali della Focide, della Locride, dell'Etolia, dell'Acarnania e dell'Epiro).
Le varie genti (ed è questa una manifestazione sintomatica del particolarismo greco) rimasero fedeli per secoli ai loro dialetti sviluppandone anche varietà locali. Ionico-attico, eolico e dorico assursero a dignità di lingue letterarie. Solo dopo Alessandro Magno (III secolo a.C.) alle varietà dialettali venne sostituendosi una lingua unitaria a base attica, la koiné.

ILIADE E ODISSEA

Accanto all'invenzione della scrittura alfabetica si colloca su un uguale piano di importanza la creazione della grande epica. L'Iliade e l'Odissea, i due poemi epici attribuiti tradizionalmente ad un poeta cieco della Ionia di nome Omero, narrano il primo l'ira di Achille, breve ma significativo episodio dell'assedio decennale posto dagli Achei alla città frigia (Asia Minore) di Troia; il secondo il travagliato ritorno in patria ad Itaca di uno degli eroi greci che avevano combattuto sotto le mura di Troia, Ulisse (Odisseo).
Gli studiosi moderni sono ormai concordi nel ritenere che i due poemi rappresentino le fasi più recenti di una plurisecolare tradizione epica. Fissati per iscritto forse nell'VIII secolo a.C. (processo cui potrebbe non essere estraneo l'intervento di una grande personalità poetica), dietro ai poemi omerici sta un complesso di canti affidati alla memorizzazione, e quindi alla trasmissione orale, attraverso la recitazione di cantori specialisti (aedi e rapsodi) che si esibivano in pubbliche narrazioni.
L'aedo Demodoco che Ulisse trova alla corte dei Feaci è in grado di esporre a richiesta una parte a piacere dei fatti di Troia; l'aedo deve conoscere un repertorio di leggende che fornisce gli argomenti dei canti sugli dei e gli eroi. La memoria degli aedi è sorretta dall'uso di formule, cioè gruppi ricorrenti di versi usati per esprimere situazioni analoghe, e di epiteti fissi che mettono in evidenza le caratteristiche permanenti di dei, eroi, animali e cose (ad esempio: «Atena dall'occhio di civetta, Apollo dio dall'arco d'argento, Ettore elmo lucente, Achille piè-veloce»). Un terzo dei poemi omerici è costituito da versi o blocchi di versi fissi ricorrenti.
Il cantore non conosce testo precostituito, ma ogni volta crea di nuovo il suo canto partendo da quanto gli altri aedi hanno già composto, ampliando e variando il materiale cantato in precedenza. Omero è al termine di una tradizione di poesia orale di questo tipo.
Il cantore, attraverso il racconto delle azioni eroiche, trasmette al suo pubblico tutto il sapere religioso, scientifico, giuridico e tecnico del tempo. In quanto deposito di tutti i contenuti culturali di una civiltà i poemi omerici sono una specie di enciclopedia del sapere, che l'aedo trasmette al suo pubblico.
A causa della loro formazione i due poemi appaiono costituiti da una serie di «strati» corrispondenti a fasi compositive diverse: i più antichi riflettono istituti, usanze, dati di cultura materiale, modi di pensare risalenti all'età micenea; altri si riferiscono all'età oscura; altri ancora (soprattutto le similitudini) direttamente all'età coeva all'autore (VIII secolo a.C.). Il duello cavalleresco convive con lo scontro a schiere serrate, che ricorda il manifestarsi di una comune responsabilità, connessa al sorgere della polis. Le armi di bronzo convivono con quelle di ferro. Lo scudo a torre di Aiace, tipicamente miceneo, coesiste con quello rotondo più moderno. Diverso è il tipo di società rispecchiata: nell'Iliade il potere monarchico è saldo; nell'Odissea è in pericolo per il contrasto con l'aristocrazia. Piuttosto diverse sono le qualità eroiche valorizzate nei due poemi: il coraggio e la forza nel primo, la prudenza e l'astuzia nel secondo. Pur accettando questa stratificazione, è tuttavia necessario rilevare alcune trasformazioni significative delle istituzioni politiche. Al posto del wanax miceneo, c'è un principe che, come primus inter pares, è al di sopra della molteplicità di basilèis, che appaiono come i rappresentanti delle diverse genti greche alla spedizione contro Troia. L'eroe compendia in sé nobiltà di nascita, prestanza fisica, coraggio e senno. Momento di espressione più alta di tale valore è il duello. Un altro elemento costitutivo della trama mitologica dei poemi è la presenza attiva degli dei. Sono divinità antropomorfe (da ànthropos = «uomo» e morphè = «forma») e interpretano tutte le passioni e tutti i sentimenti più estremi dell'uomo. Per questo appaiono simili agli uomini, con i loro stessi difetti e limiti, anche se non soggetti al carattere mortale dell'umanità.
La maggior modernità dell'Odissea si rivela anche nel presentarci una concezione più evoluta della divinità, che comincia ad essere depositaria della legge morale.
L'Iliade, il più antico dei poemi omerici, narra una parte limitata della guerra dei popoli greci contro la città di Troia in Frigia, regione dell'odierna Turchia vicina allo stretto dei Dardanelli.
Il tema centrale del poema è l'ira di Achille contro Agamennone capo supremo degli eserciti greci. Crise, sacerdote di Apollo, si reca da Agamennone con un forte riscatto per riavere la figlia Criseide catturata durante una scorreria degli Achei, ma viene scacciato. Apollo, divinità favorevole ai Troiani punisce i Greci con una terribile pestilenza. Conosciuta la causa del male, Achille nell'assemblea dell'esercito preme perché Agamennone restituisca Criseide; questi finisce per cedere, ma pretende come risarcimento la schiava più cara ad Achille, Briseide, e la ottiene valendosi della sua autorità. Il ritiro sdegnato di Achille, che abbandona per ripicca il combattimento, segna la crisi del campo greco. Solo la morte di Patroclo per mano di Ettore, il più valoroso dei Troiani, induce Achille a riconciliarsi con i Greci. L'eroe torna in combattimento e uccide Ettore; con i funerali dell'eroe troiano termina il poema.
La guerra troiana, che secondo il mito durò dieci anni, non fu un'impresa puramente leggendaria. Una città di Troia in Frigia, realmente esistita nel II millennio a.C., fu scoperta nel secolo scorso sulla collina di Hissarlik (l'odierna Troia) dal tedesco Heinrich Schliemann.
Se il racconto della guerra di Troia ha origine storica (la guerra fu una delle tante spedizioni dei Greci di età micenea a scopo di conquista e di saccheggio), diverse sono le cause della spedizione. Nel mito le origini della guerra risalgono al rapimento di Elena, la bellissima moglie di Menelao, re di Sparta, rapita da Paride giovane figlio Priamo, re di Troia. Per vendicare l'offesa e salvaguardare l'onore gli Achei sarebbero partiti per una lunga e imponente spedizione e dopo un assedio decennale avrebbero conquistato e distrutto la città.
La fine di Troia non è compresa nel racconto omerico, ma viene riportata dal poema epico latino l'Eneide di Virgilio, che presenta la versione tramandata nei secoli secondo la quale, grazie ad uno stratagemma dell'astuto Ulisse, i Greci nascosti in un cavallo di legno entrano di soppiatto in città e la incendiano.
Gli aedi, come composero poemetti su singoli episodi della guerra troiana intorno a questo o a quel eroe, così ne composero sul ritorno degli eroi in patria. Nel più recente dei poemi omerici, l'Odissea è narrato il ritorno di Odisseo (Ulisse), re di un piccolo regno che comprendeva alcune isole del Mar Ionio con centro Itaca.
Nel poema si distinguono due azioni convergenti che successivamente si uniscono. Dapprima Telemaco, figlio di Odisseo, cerca di frenare l'insolenza dei proci, giovani signori locali che, dando Ulisse per morto, tentano di usurparne il trono e fanno a gara per avere la mano della regina Penelope, sposa fedele di Odisseo. Telemaco allora intraprende un viaggio per mare alla ricerca di notizie del padre.
Odisseo frattanto, unico sopravvissuto dei compagni di navigazione, dopo un lungo soggiorno presso la ninfa Calipso nell'isola di Ogigia, giunge in seguito ad un naufragio all'isola dei Feaci. Agli ospiti Feaci Ulisse narra le avventure capitategli prima dell'arrivo presso la ninfa: tra le tante lo scontro vittorioso con il ciclope Polifemo accecato da Ulisse; l'episodio della maga Circe che trasforma mediante sortilegi i compagni di Ulisse in porci e l'incontro con le Sirene e con il loro canto ammaliatore a cui Odisseo si sottrae facendosi legare all'albero della nave e riempendo di cera le orecchie dei compagni. Dall'isola dei Feaci Ulisse fa ritorno ad Itaca parallelamente a Telemaco, insieme con il figlio e pochi servi rimastigli fedeli che lo hanno riconosciuto, per quanto mutato dagli anni e dai lunghi vagabondaggi, prepara astutamente e di nascosto la vendetta sui proci che finiscono massacrati.
L'Odissea non ha dietro di sé un preciso avvenimento storico; i viaggi avventurosi dell'eroe naufrago appartengono ad un patrimonio narrativo di ampia diffusione nell'area mediterranea. Il poema, oltre a riflettere la fase di decadenza della monarchia, sembra far riferimento all'intensa attività marinara delle popolazioni greche della costa e delle isole. Sia per esercitare la pirateria, sia per allargare i propri commerci, i Greci si spinsero in terre lontane ed ignote affrontando pericoli di ogni sorta.

L'ETÀ ARCAICA

Con il termine «età arcaica» si designa il periodo di tre secoli (dal III al VI secolo a.C.) che nella storia antica precedette la grande fioritura culturale ed artistica dell'Atene di Pericle. Poiché quest'ultimo periodo (corrispondente ai secoli V-IV a.C.) è stato definito «età classica», per l'eccellenza raggiunta nelle lettere e nelle arti, l'età precedente è stata considerata arcaica in quanto momento iniziale del processo di maturazione. La storia politica della Grecia fra 800 e 500 a.C. si riassume in due fenomeni contemporanei e paralleli: il progresso sociale e politico comune alla maggior parte delle poleis (città-stato) che porta gradatamente i Greci dalla monarchia originaria a forme di democrazia, e un vasto movimento di colonizzazione attraverso il quale la civiltà greca si diffonde nel Mar Egeo e in quasi tutto il bacino mediterraneo.

LA POLIS

L'ordinamento statale prevalente e caratteristico di tutto il mondo greco è la pòlis (= città stato; plurale pòleis). La polis è un'unità politica, economica, sociale e religiosa in sé conclusa; è un piccolo cosmo, una realtà in miniatura di quella che può essere la compagine statale di una Nazione. I Greci la considerarono una comunità naturale, l'unica forma di organizzazione sociale adatta a uomini veramente degni di questo nome.
Non è possibile individuare un atto di nascita delle poleis. In senso urbanistico la città sorse in Oriente molto prima che in Grecia, come stadio fondamentale nel passaggio dalla vita nomade a quella sedentaria. In tal senso, i contatti che i Greci stanziati in Asia Minore (Turchia attuale) ebbero con le civiltà orientali furono decisivi per offrire impulso alla vita cittadina. Nella Grecia continentale la polis entra nella storia a partire dalla fine del IX secolo e nel VIII secolo a.C.
La polis è composta da un centro più o meno urbanizzato in cui si concentra la vita politica e religiosa. L'elemento fondamentale della città greca è l'insieme dei cittadini (in greco politai dalla stessa radice di pòlis, da cui anche politikè tèchne = «politica»). Una polis è un complesso di uomini liberi che si autogovernano. Nei decreti, negli atti ufficiali, nelle relazioni internazionali una polis è designata dal nome collettivo dei suoi abitanti: un greco non avrebbe detto «la polis di Atene», ma «la polis degli Ateniesi».
Elementi comuni e caratterizzanti le poleis greche sono: l'acropoli = «la parte più alta della città», che costituiva il nucleo più munito della difesa urbana; il tempio della divinità «poliade» (= «protettrice della città») che sorge sull'acropoli; le mura di cui si cingono le città, dal VI secolo a.C. in poi; l'agorà (= «la piazza») luogo di incontri sia per scambi commerciali che per le assemblee politiche. L'agorà è l'elemento caratteristico dell'urbanistica greca, che non trova riscontro né nella città-stato del Vicino Oriente, che sorge e prospera intorno al tempio o al palazzo reale, né in quelle micenee, in cui una capillare burocrazia rendeva inutile un luogo dove tenere l'assemblea dei cittadini. Se la città possiede un porto (militare o commerciale), questo si trova spesso separato dall'agglomerato urbano: è il caso di Atene e del porto del Pireo.
L'evoluzione della polis, da un punto di vista istituzionale, prevede tre periodi: nel primo la città è composta da famiglie che conservano gelosamente il loro diritto primordiale e assoggettano tutti i loro membri al loro interesse collettivo; nel secondo subordina a sé le famiglie e il programma dello Stato diventa prioritario; nel terzo gli eccessi dell'individualismo mandano in rovina la città, così da rendere necessaria la costituzione di Stati più vasti.
La Grecia è frammentata in parecchie centinaia di poleis. Ogni polis è indipendente, dispone di propri ordinamenti, proprie leggi, propri magistrati e di un proprio esercito. Con la sua peculiare fisionomia contribuisce a dare alla civiltà comune una varietà infinita di espressioni, ma la sua autonomia è tale da impedire ogni tentativo di formazione sovranazionale. Le relazioni tra le poleis sono relazioni fra Stato e Stato. Nel suo bisogno di autonomia e sicurezza la polis entra fatalmente in conflitto con le altre; la guerra è per la Grecia antica una condizione costante. Per l'ottica greca, la pace, lungi dall'identificarsi con lo stato naturale interrotto talvolta dallo scoppio di un conflitto, rappresenta solo una parentesi che separa gli atti di un'interminabile vicenda bellica.
In circostanze particolari si ebbero tuttavia nel mondo greco formazione di ordine superiore alla polis: le leghe. L'alleanza stipulata poteva essere difensiva o offensiva e difensiva insieme; talvolta la lega rappresentava lo strumento utilizzato da un singolo Stato per esercitare la sua egemonia.
Le leghe più antiche ebbero carattere religioso: sono le anfizionìe, e gli anfizìoni che le formano sono alla lettera «coloro che abitano attorno». Si tratta di leghe con centro nel santuario di una divinità venerata in comune: i membri, legati da comuni interessi politici, si impegnavano a proteggere il tempio. Le anfizionie più antiche furono costituite da gruppi di città asiatiche; nella penisola una delle più celebri fu quella Tessala che ebbe sede prima ad Antela (vicino alle Termopili) presso il santuario di Demetra e poi a Delfi, nella Focide, presso il tempio di Apollo, allorché assunse carattere panellenico e comprese anche gli Ateniesi e i Dori.
Caratteri particolari ebbe la lega Peloponnesiaca, costituitasi nel VI secolo quando Sparta rinunciò all'espansione territoriale diretta e cercò di radunare attorno a sé con trattati di alleanza il maggior numero possibile di città. Era un'alleanza militare permanente di carattere difensivo; le città che ne facevano parte conservavano la loro autonomia, ma in caso di guerra fornivano contingenti militari su cui Sparta si riservava il comando: da ciò il nome che suonava: «gli Spartani e i loro alleati». In epoca classica vi fu la creazione di un'altra importante lega, quella delio-attica; fondata nel 478/7 a.C. aveva lo scopo di continuare la guerra contro la Persia. Comprendeva oltre alle città dell'Eubea e delle Cicladi occidentali, tutte le città liberate dal dominio persiano.
La riscossione del contributo versato da tutti i membri della lega alla città egemone, Atene, caratterizzò la lega chiamata delio-attica, perché nell'isola di Delo, sede del santuario federale degli Ioni, veniva custodito il tesoro comune delle città alleate. Ma la lega degenerò trasformandosi in strumento dell'imperialismo ateniese. Nella seconda metà del V secolo a.C. la minaccia che il sempre più vasto e potente impero ateniese sembrava racchiudere per l'indipendenza di tutte le città greche favorì il raggrupparsi intorno a Sparta di tutti quegli Stati che si videro minacciati e offesi dalla crescente potenza ateniese. Gli interessi di tanti alleati occasionali concordavano in un solo scopo: la distruzione dell'egemonia ateniese. Raggiunto tale obiettivo, venne a cessare ogni impulso alla concordia di intenti tra gli alleati.
A sin.: anfora del VI sec.; a destra: coppa del V sec.


LA COLONIZZAZIONE

Nel XII secolo a.C. l'invasione delle popolazioni doriche determinò un vasto movimento migratorio di Greci diretto soprattutto verso le coste dell'Asia Minore. Circa mezzo millennio dopo, intorno alla metà del VIII secolo a.C., ha inizio il secondo periodo dell'espansione greca nel Mediterraneo che si protrae per tre secoli.
Le cause della colonizzazione dell'VIII e del VII secolo a.C. sono varie: dalla mancanza delle terre coltivabili e dalle sue conseguenze (indebitamento, schiavitù e carestie), all'incremento demografico, alle situazioni di oppressione politica e sociale per il predominio delle aristocrazie che provocavano scontenti ed emarginati.
Solo alcune località del mondo greco diedero vita al flusso migratorio; tra le più importanti Mileto e Focea della costa dell'Asia Minore, Calcide ed Eretria dell'isola di Eubea, Corinto e Megara sull'istmo. Le mete preferite dai coloni furono in Oriente le coste della Macedonia e della Tracia, degli stretti e del Mar Nero; in Occidente soprattutto le coste dell'Italia meridionale (Magna Grecia) e della Sicilia, ma anche quelle dell'Africa settentrionale, della Spagna, della Gallia.
La colonizzazione determina la nascita di nuove poleis greche lungo quasi tutto il bacino del Mediterraneo.
Un'ulteriore espansione fu bloccata in Occidente dalla progressiva resistenza di Cartaginesi e di Etruschi, che guardavano con crescente preoccupazione alla concorrenza commerciale greca, in Oriente dall'espansione dei Persiani.
L'acquisizione di nuove terre avvenne a spese degli indigeni. La scelta del luogo di fondazione della colonia obbediva a regole precise: l'importanza economica del retroterra, la qualità delle terre, la posizione delle genti locali nei confronti degli stranieri, la difendibilità del luogo, il collegamento con le vie commerciali.
La città da cui partivano i coloni, o la maggior parte di essi, veniva considerata la madrepatria (metropolis) della colonia che si andava a fondare. All'atto della partenza la città-madre forniva ai coloni navi, mezzi, informazioni e un capo, l'ecista, il fondatore della colonia, di solito nobile, a cui dopo la morte i coloni tributavano gli onori riservati agli dei. Prima di intraprendere l'impresa si consultava ordinariamente l'oracolo di Delfi, il cui patronato si estese a tal punto da accreditare l'idea che l'approvazione di Apollo fosse un elemento indispensabile per la riuscita dell'impresa.
A differenza delle colonie ateniesi di età classica, di quelle romane o di quelle degli Stati moderni, le colonie greche di età arcaica non ebbero carattere statale, salvo rare eccezioni, la polis che nasceva era del tutto autonoma rispetto alla madrepatria. Restavano i legami di lingua, di cultura, di religione; fiorivano i rapporti commerciali, ma cessavano quelli politici: la colonia stipulava trattati, fondava a sua volta altre colonie, si dava leggi, sceglieva magistrati senza interferenza della madrepatria.
Non tutti gli insediamenti commerciali erano vere e proprie poleis, alcuni erano empori (ad esempio Naucrati sul Delta dell'Egitto). Le imprese coloniali diffusero la cultura greca molto lontano dalle sue basi native.
Le colonie contribuirono anche a far superare i limiti di un'economia esclusivamente agricola, con industrie scarse e non sviluppate oltre il livello dell'artigianato locale e con un'attività marinara in declino. Mutando i rapporti economici contribuirono a mutare anche quelli giuridici tra le varie classi sociali, determinando la decadenza dei privilegi dell'aristocrazia.

AREA DELLA COLONIZZAZIONE GRECA

Latini ed Etruschi, Oschi e Messapi, Siculi e Sicani (tutte popolazioni italiche) accedono alla civiltà urbana grazie all'influenza esercitata dalle numerose e fiorenti colonie greche. Dalla colonia greca di Cuma l'alfabeto di Calcide fu trasmesso agli Etruschi e attraverso questi anche ai Romani.
Alla terra da cui erano partiti i coloni greci apportarono durevoli e cospicui vantaggi come l'impulso alla navigazione (le prime triremi vennero costruite a Corinto verso la fine del VII secolo a.C.), alla produzione artigianale (i manufatti greci, dopo aver fatto scomparire dai mercati ellenici gli articoli fenici, cominciarono a comparire in concorrenza con questi in tutti gli scali ed empori del Mediterraneo), al commercio favorito dall'introduzione della moneta che fu coniata per la prima volta in Lidia nel VII secolo a.C.. mentre ad Egina troviamo il Primo conio di monete della Grecia propriamente detta.
Area della colonizzazione greca


L'EVOLUZIONE DELLA CITTÀ

Nella città aristocratica (aristocrazia = «comando dei migliori» da àristos = «ottimo», termine con cui il nobile designava se stesso, e kràtos = «dominio») e oligarchica (oligarchia = «comando dei pochi», da olìgoi = «pochi» e arché = «comando») solo una parte dei cittadini, che possiede determinati requisiti legati alla nascita o al possesso di beni (in origine solo fondiario, poi si giunse ad equiparare proprietà mobile e proprietà terriera) gode dei pieni diritti e può partecipare al governo della cosa pubblica.
Le poleis più antiche, sorte nei secoli bui, avevano un carattere decisamente aristocratico. I nobili avevano nelle mani un forte potere economico: erano proprietari terrieri e allevatori di bestiame. I titoli con i quali li si designava in alcune città esprimono la realtà di una casta che si riteneva superiore per origine divina, virtù morali, ricchezza: Eupatrìdai (= «ben nati»), Eughenéis (= «di buona stirpe»), Hippobotes (= «allevatori di cavalli»). A fianco degli aristoi vivono persone che non hanno potere politico, che possiedono poca terra o che, impossibilitati a saldare i debiti contratti con i nobili, coltivano per altri la loro terra di un tempo.
In questa situazione la trasformazione economico-sociale conseguente alla colonizzazione ha profonde ripercussioni anche sulle strutture politiche. Lo sviluppo dell'industria e del commercio aveva prodotto non solo una borghesia opulenta, ma anche una classe media di artigiani e di mercanti, le cui condizioni di vita e i cui interessi erano assai vicini a quelli dei contadini, che nell'esercito oplitico erano chiamati per la prima volta a difendere la polis. Di fronte alla pretesa dei ghéne (= «grandi famiglie») aristocratici di conservare il monopolio della vita pubblica, essi cominciarono a reclamare la partecipazione al governo e la pubblicazione delle leggi.

I LEGISLATORI

Alle origini della legislazione scritta sta la richiesta di sostituire un insieme di norme vincolanti (il nòmos = «la legge» formulata dal legislatore e accettata dalla comunità dei cittadini) alle leggi consuetudinarie, tramandate oralmente, che potevano essere modificate o interpretate in modo da soddisfare gli interessi della classe dominante.
Nell'VIII-VII secolo a.C. il poeta Esiodo, servendosi della favola dell'usignolo ghermito dallo sparviero rappresenta efficacemente gli effetti dolorosi di una giustizia che privilegia il diritto del più forte. I «re divoratori di doni», come Esiodo chiama i giudici aristocratici, calpestano i diritti del piccolo contadino.
I primi codici scritti non si propongono di modificare la legge, quanto di pubblicarla e di impedire la sua mancata applicazione e distorsione. I primi legislatori appaiono nelle colonie occidentali, dove più forte era la necessità di fissare norme vincolanti per tutti i cittadini per salvaguardare l'identità e l'unità del centro, e minore era la forza della tradizione. A Zaleuco di Locri, Caronda di Catania e Diocle di Siracusa si aggiungono tra il VII e il VI secolo a.C. Dracone e Solone ad Atene, Licurgo a Sparta.
L'esistenza storica di questi nomoteti (legislatori, da nomos = «legge» e da tìthemi = «porre») non è del tutto accertabile. La critica moderna in alcuni casi ha pensato ad antiche divinità solari (Zaleuco) o a figure eroico-divine (Licurgo). L'attribuzione dei codici di leggi a queste divinità poi storicizzate corrisponde alla concezione greca, e più generalmente antica, secondo la quale il diritto costituisce un ordinamento di origine divina.
Il nomoteta arcaico risponde ad una precisa tipologia comune: gli sono attribuiti un viaggio di apprendistato precedente la legislazione, un maestro illustre, un'estrazione sociale media (poiché mediana è la posizione che dovrà assumere), l'esilio spesso volontario successivo alla legislazione, la morte esemplare. Rientra poi fra i tratti eroici del legislatore la monoftalmia (dal greco mònos = «solo» e ophthalmòs = «occhio»). I legislatori perdendo un occhio rinunciano a una conoscenza esteriore in cambio di una saggezza più profonda, non diversamente dai veggenti (Tirèsia) e dai poeti (Omero) ciechi. L'unico occhio del legislatore Licurgo simboleggia, in tempo di pace, la prova della sua veggenza e, in tempo di guerra, lo sguardo penetrante con cui affascina i nemici o gli antagonisti politici.
Le codificazioni greche, con qualche modifica a seconda del legislatore, non offrono che una riproduzione delle consuetudini giuridiche a quel tempo vigenti. Dietro alle singole disposizioni, soprattutto nel campo del diritto penale, traspare l'intento di fissare per legge la misura della sanzioni per impedire l'arbitrio dei giudici. Numerose sono le disposizioni nuove nel campo riguardante i debiti, l'eredità e la schiavitù. Le pene sono di una durezza estrema: ad Atene, secondo la legge di Dracone, il furto è punito con la morte; chi non salda i propri debiti diventa con la famiglia proprietà del creditore. Un grande progresso è evidente nella distinzione di Dracone tra uccisione e omicidio preterintenzionale: nel primo caso la pena è la morte, nel secondo l'esilio. La vendetta privata, la faida, è sostituita dall'organizzazione giudiziaria dello Stato, segno che l'idea di Stato si sta affermando e supera gradualmente i vincoli nobiliari.

I TIRANNI

Le riforme tentate dai legislatori rappresentano spesso un compromesso tra le preoccupazioni degli aristocratici conservatori e le rivendicazioni del popolo. Ciò nonostante non riescono a mettere fine alla crisi sociale greca, che, in certi casi, trova una soluzione provvisoria nel regime che i Greci chiamano tirannide.
Il termine greco tyrannos (= «tiranno») in origine indica chi esercita un potere non legittimo, assunto per via non dinastica e non costituzionale; solo a partire dal IV secolo a.C. assume il senso fortemente negativo conservato fino ad ora. Come per i primi legislatori, esiste una tipologia antica del tiranno che prevede un oracolo che ne predice l'avvento, la sua nascita oscura, le atrocità a cui si abbandona dopo l'assunzione del potere (valga come esempio il ritratto grottesco di Falaride, tiranno di Agrigento, che arrostisce i nemici nel ventre di un toro di bronzo). Gli studiosi moderni a questa immagine negativa hanno affiancato quella del tiranno anticipatore delle riforme democratiche.
I tiranni, tra cui emergono i nomi di Cipselo e Periandro a Corinto, Teagena e Megara, Ortagora a Sicione, Policrate a Samo, Pisistrato e i suoi figli ad Atene, sono quasi sempre nobili (molto raramente avventurieri) che, contando sull'appoggio di un dèmos (= «popolo») esasperato dall'insolenza degli aristocratici, strappano il potere all'aristocrazia e impongono il proprio dominio. Il governo dei tiranni si basa su una contraddizione di fondo: le classi popolari, piattaforma del successo dei tiranni, continuano ad essere escluse dalla guida della città; il potere è accentrato esclusivamente nelle mani di un individuo che l'ha ottenuto illegalmente e in circostanze eccezionali.
Di norma i tiranni non mutano la costituzione dello Stato. Per sostenersi si limitano a tenere in pugno l'esercito, a condurre una politica familiare, ripartendo tra i propri partigiani le magistrature, ad assicurarsi con mezzi vari il consenso del dèmos.
Le confische inflitte agli avversari di estrazione aristocratica (proprietari terrieri) il sistema di tassazione introdotto portano ad una diversa e più varia distribuzione della ricchezza, favorendo lo sviluppo della piccola proprietà. L'impulso dato ai lavori pubblici, fonte di guadagno per la manodopera popolare, ai commerci, alle colonizzazioni, ai rapporti diplomatici più che alle soluzioni di forza, sanziona un progresso economico, culturale e civile.
Esempio chiaro di una tirannide sollecita del progresso economico e del benessere materiale dei cittadini sono i Pisistratidi di Atene. Pisistrato, capo della fazione più popolare e inquieta della cittadinanza ateniese, costituita da salariati senza mezzi sufficienti per vivere e da contadini in miseria che reclamavano la redistribuzione della terra, si impadronisce del potere nel 561/560 a.C.; esiliato pochi anni dopo, rientra in Atene nel 546/5 a.C. e, per una ventina d'anni, approfitta di ogni occasione per assicurare ad Atene una grandezza che è allo stesso tempo la sua grandezza. Dedica la sua attenzione alle masse contadine, risolvendo la questione agraria con la divisione delle terre incolte confiscate ai nobili, con prestiti ed esenzioni dai tributi.
Con una lungimirante politica estera, apre al commercio marittimo ateniese le Cicladi, l'aurifera Tracia e l'Ellesponto, da cui proveniva il grano. La ricchezza di oro, proveniente dalle miniere personali del tiranno in Tracia, e di argento della regione del Laurio in Attica, gli consente di circondarsi di una corte fastosa e di realizzare un vasto programma di lavori pubblici.
Dispone che vengano celebrate con maggior solennità le Panatenee (feste in onore di Atena) ed organizza per Dioniso, divinità agreste per natura estranea ai culti aristocratici, le Grandi Dionisiache, in cui si svolgono i concorsi tragici. Pisistrato muore nel 528/7 a.C. Con il figlio Ippia la tirannide è ormai un'istituzione anacronistica. Spezzato lo strapotere dei nobili, ripartita su nuove basi la ricchezza avviato lo sviluppo economico della comunità, vengono meno le circostanze per cui la tirannide si era affermata. Il popolo si sente ormai pronto a partecipare attivamente alla politica. Alla fine del VI secolo a.C. i tiranni scompaiono in tutta la Grecia. Solo in Sicilia la tirannide si protrae nel V e si rinnova nel IV sec. a.C. anche in funzione della lotta contro Cartaginesi ed Etruschi. Tra i nomi più famosi si possono ricordare quelli di Ippocrate di Gela, Gelone di Siracusa, Terone di Agrigento e dei due Dionigi di Siracusa.

SPARTA E ATENE

Erodoto (storico greco del V secolo a.C.) riporta il più antico dibattito di teoria politica di cui si tramandi memoria. Un gruppo di dignitari persiani, impegnati a discutere sulla forma di governo da dare alla Persia dopo la morte di Cambise, prospettano alternativamente i vantaggi e gli inconvenienti della monarchia, dell'oligarchia e della democrazia. Sola convincente è la prima; l'assolutismo del resto era connaturato alle civiltà dell'Antico Oriente. Il racconto vale come testimonianza sia di una tipica tematica greca relativa alla miglior forma di governo (oggetto dell'analisi filosofica di Platone e Aristotele), sia di una realtà che vedeva la Grecia frantumata in molti Stati.
Tra i tre governi dello schema erodoteo, i Greci si erano presto liberati della monarchia. Nel medioevo ellenico il re (basiléus) governa la città, comanda l'esercito, amministra la giustizia e svolge le funzioni di sommo sacerdote. L'autorità di cui gode, basata sia sulle sue origini ritenute divine, sia sulla sua ricchezza, non è però assoluta, ma deve venire a patti con l'assemblea degli anziani e con la volontà dei nobili. Nell'VIII secolo la monarchia sopravvive solo in numero ristretto di città.
Le sorti della Grecia si giocano essenzialmente nell'opposizione tra il sistema oligarchico e il sistema democratico, rappresentati in modo esemplare il primo da Sparta, il secondo da Atene. A queste due città guardavano le altre poleis greche, allineandosi nell'uno o nell'altro schieramento a seconda delle loro costituzioni.

SPARTA

Sparta, considerata il prototipo della città aristocratico-oligarchica, si formò quando alcune tribù doriche si insediarono in una regione del Peloponneso meridionale, la Laconia, sottomettendo le popolazioni indigene anche della vicina Messenia.
Gli antichi solevano riportare la totalità degli ordinamenti spartani al legislatore Licurgo. In realtà la costituzione spartana fu l'esito di una lunga evoluzione compiutasi fra il IX e il VI secolo a.C., anche sotto l'influenza delle guerre messeniche. Per mantenere in condizione di oppressione la massa turbolenta delle popolazioni assoggettate, Sparta, dopo il VII secolo a.C., si chiuse in un rigido conservatorismo, che impediva ogni scambio di notizie con l'esterno, reprimeva ogni novità ed estraniava la città dalla vita culturale della Grecia, creando uno Stato militare dalla struttura politica e sociale rigidissima.
L'esercizio delle armi, che in tutte le città aristocratiche ebbe sempre una funzione di primo piano, a Sparta era imposto dalla necessità che un'esigua minoranza dominasse una massa di sudditi molto più numerosa. Questa minoranza costituiva il gruppo degli homoioi (= «uguali») o Spartiati, i soli cittadini con pieni diritti, il cui numero massimo fu di cinquemila al tempo della battaglia di Platea nel 479 a.C.
Agli Spartiati era proibito svolgere un'attività artigianale o commerciale ed anche coltivare il lotto di terra che lo Stato assegnava loro come concessione ereditaria e inalienabile. La loro vita era interamente consacrata alle armi. Dall'età di sette anni erano sottoposti ad un sistema educativo organizzato dallo Stato di impostazione totalmente militare che infondeva in loro gli ideali di obbedienza incondizionata, di completa dedizione al dovere, di disprezzo per i beni della vita, preparandoli al combattimento di gruppo.
Gli Spartiati potevano dedicarsi completamente alle attività militari poiché il lavoro dei campi era affidato agli Iloti, discendenti dai Messeni e Laconi assoggettati dagli Spartani. Profonda è la differenza tra gli Iloti e gli schiavi ateniesi. Gli Iloti o servi della gleba, erano di proprietà dello Stato e non di singoli; non erano comprati né venduti, prestavano il servizio nell'esercito, la loro situazione materiale era tollerabile. Data la loro omogeneità etnica, le rivolte degli Iloti di Laconia e Messenia furono un fattore costante della storia spartana.
La terza categoria della popolazione lacone era composta dai Perieci (= «coloro che abitano intorno»). Erano anche essi uomini liberi e potevano dedicarsi ad attività economiche precluse agli Spartiati (agricoltura, allevamento, artigianato e commercio); a differenza dei meteci ateniesi, era loro concesso di possedere terre. Raggruppati in piccole comunità, essi godevano di una certa autonomia locale, erano reclutati nell'esercito, ma non possedevano alcun diritto di intervento nella vita politica della città.
La costituzione spartana si presentava irrigidita nel medesimo conservatorismo e nella medesima tendenza a limitare l'iniziativa individuale che caratterizzava gli altri aspetti della vita spartana. La monarchia era sopravvissuta a Sparta nella forma di diarchia: due re con funzioni sacerdotali e di comando dell'esercito. Il collegio dei cinque efori (che alcuni moderni hanno ipotizzato fossero in origine sacerdoti) costituiva l'esecutivo della polis spartana, aveva il compito di controllare l'operato dei re e dei cittadini e presiedeva l'assemblea popolare.
Il consiglio (gherusia) comprendeva ventotto geronti di età superiore a sessant'anni e i due re e fungeva sia da alta corte di giustizia sia da organo che prepara le proposte da sottoporre all'assemblea.
L'assemblea popolare (apella) era formata da tutti gli spartani di nascita libera (homoioi) di età superiore ai trent'anni. Essa eleggeva i magistrati, approvava o respingeva le proposte del consiglio, dichiarava la guerra, stipulava le alleanze. Nella assemblea non era ammessa la discussione.
La costituzione spartana è dunque oligarchica, poiché solo una minoranza ristretta, quella degli homoioi, partecipa alla vita politica; ma all'interno di questa oligarchia tutti i cittadini godono di uguali diritti.

ATENE

Capitale delle stirpi ioniche stanziate in Attica, dopo un periodo di netta prevalenza aristocratica, Atene fu il teatro di un processo che attraverso Dracone, Solone, Clistene, Pericle portò a quella forma istituzionale detta democrazia (da démos = «popolo» e kràtos = «dominio»). A Dracone si attribuisce la prima legislazione scritta di Atene, presentato forse a torto da Aristotele come una costituzione timocratica (dal greco timé = «censo» e Kràtos «potere», cioè «fondata sulla ricchezza»).
Solone, arconte con pieni poteri nel 594/3 a.C. (secondo Diogene Laerzio) attuò alcune riforme, tra cui il cosiddetto «scuotimento dei pesi», che annullava le ipoteche sulle persone e sui beni dei cittadini e vietava la schiavitù per debiti, e la riforma dei pesi e delle misure con sostituzione del sistema dei pesi. Discussa è l'attribuzione a Solone, forse a lui anteriore, della divisione della popolazione in quattro classi di censo (pentacosiomedimni, triacosiomedimni, ippèis - coloro che potevano mantenersi un cavallo - zeugiti, teti) a seconda delle rendite annuali valutate, essendo l'Attica una regione ancora prevalentemente agricola, in medimni (52 litri) di cereali o metreti (39 litri) di vino. L'appartenenza a queste classi di censo, e non più la nobiltà di nascita, regolava l'accesso alle magistrature e al servizio militare. I teti, rappresentanti della quarta classe, non avevano accesso alle magistrature né all'esercito, potevano però partecipare all'assemblea (ecclesia) e far parte dell'eliea (tribunale popolare).
Per quanto una parte della tradizione consideri Solone il padre della democrazia, le sue riforme furono quelle di un moderato, che, come egli stesso afferma in una sua poesia, si limitò ad abolire le ingiustizie più macroscopiche senza alterare l'assetto sociale. Di fronte alla tensione sociale originata dall'ineguale ripartizione del suolo, Solone annullò i debiti garantiti dalla persona fisica del debitore e riscattò gli Ateniesi venduti schiavi perché debitori insolventi, senza però procedere alla redistribuzione delle terre.
L'opera di riforma democratica avviata da Solone fu portata a compimento da Clistene. Arconte nel 508/7 a.C. Clistene apportò alla costituzione di Atene radicali innovazioni per infrangere il potere della nobiltà. Sostituendo al legame di sangue il principio territoriale fece in modo che tutti i cittadini fossero membri di un distretto territoriale (demo).
Clistene divise la popolazione dell'Attica in 10 tribù territoriali, ciascuna delle quali eleggeva i propri rappresentanti senza distinzione di nascita e di ricchezza. Per togliere alla tribù la possibilità di rappresentare solo gli interessi degli aristocratici proprietari terrieri e scongiurare il pericolo di contrasti interni, volle che ogni tribù fosse composta da tre unità territoriali minori (le trittie), una della città (o asty), una dell'entroterra, (tulsogaia), una della costa (o paralia).
Ogni tribù doveva fornire un reggimento di opliti, con il suo capo, sorteggiare tra i suoi membri di età superiore ai 30 anni, 50 rappresentanti al Consiglio dei Cinquecento (Boulé) o eleggere un arconte o il segretario della Boulé, infine inizialmente uno dei dieci strateghi. La Boulé preparava il testo delle proposte da sottoporre all'assemblea.
Tutti i cittadini di nascita libera maggiori di 20 anni esercitavano il loro potere sovrano nell'ecclesìa (assemblea popolare), cui spettavano le decisioni sulla pace e la guerra, sulle alleanze, sulla legislazione, sulle condanne a morte o all'esilio, sull'elezione dei magistrati e il loro operato, e il controllo sulle finanze.
Le altre magistrature, per permettere a tutti i cittadini di partecipare effettivamente alla vita politica, erano annuali e collegiali.
Per garantire lo Stato contro eventuali tentativi di restaurazione della tirannide, pare che Clistene stesso abbia istituito l'«ostracismo», procedimento per il quale chi era sospettato di congiurare contro la polis poteva essere bandito da Atene per dieci anni ed essere temporaneamente privato dei diritti politici. A sancire la condanna bastava il voto di seimila cittadini espresso su cocci di argilla (òstraka). La pena fu usata spesso da individui dotati di prestigio politico come strumento per sbarazzarsi dei propri avversari.
La riforma clistenica nel suo complesso pose tutti i cittadini su un piano di uguaglianza politica giuridica. L'intero corpo civico era partecipe e responsabile di ogni decisione relativa al governo della città. Il regime democratico aveva tuttavia i suoi limiti: mentre scomparivano le disuguaglianze di status fra gli Ateniesi e proseguiva l'avanzata della democrazia, la comunità dei cittadini diventò un gruppo del tutto esclusivo. Una legge di Pericle del 451/50 a.C. prescrive che solo i figli di ambedue i genitori ateniesi divenissero cittadini di Atene. Ai soli cittadini era riservato l'elettorato attivo e passivo e il possesso delle terre.
Dal corpo civico erano esclusi donne, meteci e schiavi. «Grande è la reputazione di quella donna di cui per lode o per biasimo si parli il meno possibile»; queste parole di Pericle, riportate da Tucidide, sono il miglior commento alla condizione della donna ateniese, esclusa, a differenza di quella spartana, dalla vita politica, economica ed intellettuale. I meteci (da metoikèo = «abito intorno») erano gli stranieri residenti in Attica, uomini liberi, ma privi di diritti politici, soggetti al metoikion (tassa sulla persona che simboleggiava l'inferiorità del loro status), esclusi dal diritto di possedere terre, si dedicavano all'artigianato, al commercio, all'attività bancaria. Poiché i meccanismi economici fondamentali erano nelle loro mani, la presenza degli stranieri in Atene fu sempre incoraggiata.
All'infimo grado della società si trova la massa degli schiavi, che costituì per secoli la base dell'economia ateniese. Lo schiavo, a differenza dell'Ilota spartano, era una mèrce, poteva essere venduto, comprato, affittato, dato in pegno. Non aveva diritti politici e civili, non prendeva parte alle guerre.

LIBERI E SCHIAVI

Il filosofo Aristotele (IV secolo a.C.) definisce l'uomo un «animale politico» (zòon politikòn = «un essere della polis»), ma lo chiama anche «essere della famiglia» e «essere destinato dalla natura a vivere in una comunità». All'interno delle comunità, anche quelle governate da un ordinamento di tipo democratico, non tutti i membri sono uguali. Non si tratta tanto di differenza fra città e campagna, ma di ineguaglianza fra liberi e schiavi, ricchi e poveri, cittadini e non cittadini.
Il lavoro servile sotto una forma o l'altra è presente in tutta la storia greca. Per l'Ateniese medio di età classica non vi era niente di più naturale che scaricare sugli schiavi il lavoro. Gli schiavi lavoravano come domestici nelle case private, come operai nelle botteghe artigiane, come minatori nelle cave e nelle miniere e costituivano la maggioranza dei lavoratori agricoli.
Aristotele nel primo libro della Politica, affrontando il problema della schiavitù, enunciò la dottrina della naturalità di questo istituto: come in ogni essere vivente composto di anima e corpo, il corpo ubbidisce all'anima, e come fra tutti gli esseri viventi gli animali sono soggetti agli uomini, così anche tra gli uomini stessi ve ne sono alcuni, la cui attività consiste nell'uso del corpo, che sono schiavi per natura e trovano il loro stesso vantaggio nello stare sottomessi, nell'essere proprietà di un altro.
Anche all'interno delle poleis democratiche esisteva poi una netta disuguaglianza tra uno strato privilegiato, che deteneva il potere economico e accedeva con maggior facilità alle cariche di governo, e le masse popolari ridotte a livello si sussistenza e in ruoli politicamente passivi.
Alcune attività economiche erano considerate degne di un cittadino, altre inferiori e perciò adatte alle classi sociali inferiori o agli stranieri o agli schiavi. L'agricoltura occupava un posto al vertice della scala gerarchica: l'ideale era rappresentato dal proprietario terriero libero, indipendente, autosufficiente. In fondo alla scala erano il commercio e le attività manuali.
La distinzione di significato più ampio, destinata a durare per tutto il periodo classico negli Stati democratici e in quelli oligarchici fu però quella fra cittadini, cui erano riconosciuti pieni diritti politici e civili, e non cittadini. In una polis uno straniero non è necessariamente un barbaro, anzi spesso proviene da un'altra polis, parla greco e si comporta da greco. La barriera che lo divide dai cittadini non è dunque innalzata da pregiudizi culturali razziali; la città-stato greca è un mondo chiuso, geloso della propria autonomia: chi viene da fuori viene accettato solo in posizione subordinata e lasciato ai margini della comunità di uguali.
Nel mondo greco solo i cittadini avevano diritto al possesso della terra, solo in circostanze eccezionali il privilegio poteva essere esteso a singoli non cittadini. Molti stranieri erano impegnati attivamente nel commercio, nella manifattura, nei prestiti di denaro; alcuni frequentavano ambienti sociali elevati, ma erano politicamente emarginati e non potevano possedere né campi, né case. Tra i tanti privilegi dei cittadini di pieno diritto c'era quello di non pagare le tasse. Il modo in cui i Greci applicavano le imposte, che costituivano la principale fonte di reddito delle città greche, rivela il sistema di valori su cui si basava la città greca. Generalmente si evitavano le imposte dirette regolari sulla proprietà e sulla persona dei cittadini, imposte che il Greco avrebbe sentito come umilianti. Non vi era però alcuna esitazione a tassare i non cittadini: per esempio, ad Atene una parte delle entrate finanziarie dipendeva da un'imposta speciale che i meteci (stranieri) pagavano e che simboleggiava l'inferiorità del loro status.

L'ETÀ CLASSICA

L'età classica (V-IV secolo a.C.) è considerata l'apogeo della grecità. Classico è sinonimo di esemplare, di modello degno di essere imitato; dal campo artistico il termine si è esteso a tutti gli aspetti della civiltà greca del V e IV secolo a.C., cosicché le opere prodotte in quel tempo costituiscono una sorta di ideale normativo, un criterio di giudizio.
Due conflitti dominano il quinto secolo: quello che oppone i Greci ai Persiani (490-478 a.C.) e quello che vede combattere tra loro quasi tutte le poleis greche attorno a Sparta o ad Atene (431-404 a.C.). Se nel confronto con il Grande Re persiano la posta in gioco è la libertà del mondo greco, l'opposizione tra Atene e Sparta è più complessa.
Sparta, isolata nell'entroterra del Peloponneso, autosufficiente economicamente, chiusa agli stranieri, conserva immutato il sistema politico-sociale arcaico e, quanto al suo aspetto, secondo lo storico Tucidide (V secolo a.C.) ricorda più che una città un insieme di villaggi.
Atene, situata al centro delle maggiori vie di comunicazione della penisola greca, è un attivo centro artigianale e commerciale, dotato di uno dei maggiori scali del Mediterraneo, il porto del Pireo. Dall'Egitto, dal Ponto e dalla Sicilia, giunge in Atene il grano necessario a nutrire il vasto agglomerato urbano; in cambio essa offre vino, olio e manufatti. Le sue strade brulicano di stranieri. Splendidi edifici ed opere d'arte accentuano il carattere aperto alle innovazioni di questa città che diventa il più vivace centro culturale dell'Occidente. All'immobilismo costituzionale spartano Atene oppone una progressiva evoluzione verso un maggior potere del popolo.
La Lega di Delo, fondata nel 478/7 a.C. e comprendente molte città dell'Egeo, diventa lo strumento per eccellenza dell'imperialismo ateniese, trasformando gli antichi alleati che avevano aderito volontariamente alla coalizione antipersiana in sudditi tributari, le cui defezioni erano punite duramente e la cui politica interna era soggetta all'interferenza di Atene.
Durante la guerra del Peloponneso questo imperialismo s'impone con violenza ancora maggiore. La città che si professava campione della libertà non sa ammettere che la piccola isola di Melo nell'Egeo mantenga la sua neutralità rifiutando di assoggettarsi all'egemonia ateniese. Nel 416 a.C. Atene si macchia di un atroce genocidio: tutti gli uomini adulti dell'isola sono uccisi, le donne e i bambini venduti schiavi e i territori confiscati.

L'ATENE DI PERICLE

A partire dal 462 a.C. per iniziativa prima di Efialte, poi di Pericle, viene approvata una serie di provvedimenti che permettono una partecipazione più ampia agli ordinamenti già previsti dalla costituzione di Clistene.
Si stabilisce che le alte magistrature siano assegnate per sorteggio tra tutti i cittadini, ad eccezione di alcune cariche militari e finanziarie, le quali per la specifica competenza tecnica richiesta rimanevano elettive. Si sancisce per la prima volta nella storia l'assegnazione di un'indennità giornaliera a tutti coloro che ricoprono un pubblico ufficio, permettendo anche ai più umili di accedere alle cariche pubbliche mentre in precedenza esse erano di fatto, se non di diritto, riservate a quanti potevano vivere di rendita.
L'evoluzione della costituzione indebolisce l'autorità degli arconti e del tribunale dell'Areopago, l'organo più aristocratico della costituzione ateniese, residuo di antichi privilegi nobiliari, mentre si accrescono ulteriormente i poteri dell'ecclesia, della Boulè dei Cinquecento e dei tribunali eliastici.
La guida suprema dello Stato spetta ai dieci Strateghi e in primo luogo al presidente del collegio degli Strateghi. Eletto a questa carica per quasi trent'anni dal 460 a.C., Pericle gode di poteri così estesi che, secondo lo storico Tucidide, «in apparenza si trattava di democrazia, in realtà del governo di uno solo».
In politica estera Pericle si impegna contemporaneamente contro i Persiani per estendere l'egemonia di Atene su tutto il Mediterraneo orientale, contro Sparta per affermare il primato ateniese in Grecia. Fulcro della sua politica interna è invece l'ideale democratico, inteso come uguaglianza di tutti davanti alla legge, ma anche come possibilità per tutti di vivere una vita dignitosa; eppure contemporaneamente, con un'iniziativa contraddittoria e razzista, lo stesso Pericle esclude dal diritto di cittadinanza gli abitanti che avevano un solo genitore ateniese e determina la chiusura della polis.
Il tesoro della Lega di Delo, trasferito ad Atene nel 454 a.C., su iniziativa di Pericle viene destinato alla ricostruzione monumentale della città. Fidia, massimo scultore di età classica, collabora a progettare e dirigere i lavori dell'Acropoli e provvede personalmente a scolpire con l'aiuto degli allievi i fregi del Partenone: nel tempio della dea Atena viene eretta una statua crisoelefantina (= «di oro e di avorio», da chrysòs = «oro» e elephàntinos = «di avorio»).
Con Eschilo, Sofocle, Euripide, la tragedia attica diviene strumento di educazione morale e politica collettiva. Il filosofo Anassagora, maestro e amico di Pericle, propone un'interpretazione della realtà del tutto libera da elementi mitologici e presenta contro il mito dell'età dell'oro una teoria del progresso basata sull'evoluzione della tèchne (= «arte», intesa come strumento per modificare la realtà).
I Sofisti diffondono una cultura critica razionalistica, irriverente della tradizione e pronta a discutere su tutto. Non esiste secondo loro un sapere assoluto e ovunque valido, ma «l'uomo è misura di tutte le cose»; le divergenti opinioni non devono essere valutate in base alla loro presunta verità, ma piuttosto per le conseguente pratiche che ne derivano. L'equilibrio tra culti poliàdi (= «della città») e culti popolari iniziato ai tempi di Pisistrato si consolida. Atena e Poseidone, le più antiche divinità dell'Attica vengono adorate insieme sull'Acropoli e a Capo Sounion.
Soprattutto Atene trae benefici dalla nuova potenza della sua città. Le classi artigiane, salite a grande prosperità sotto il governo di Pericle, sia grazie alla sua politica di lavori pubblici, sia per il diffondersi delle ceramiche, hanno i loro protettori in Atena Ergane (= «operaia»), Efesto e Prometeo.

LA GUERRA DEL PELOPONNESO

Nel 431 a.C. il latente antagonismo tra Atene e Sparta, intorno alla quale si stringono altre città minacciate dalla politica imperialistica ateniese, esplode nella cosiddetta Guerra del Peloponneso che si protrae sino al 404 a.C. e che, sebbene sia detta peloponnesiaca, investe un'area più vasta, dalla Grecia alle coste dell'Asia Minore, dall'Ellesponto alla Sicilia, dalla penisola calcidica all'isola di Corcira.
L'impero ateniese è decisamente superiore ai suoi avversari dal punto di vista demografico, economico e soprattutto navale. La Lega Peloponnesiaca gode invece di una indiscussa prevalenza nelle forze terrestri e può contare sull'appoggio di città come Siracusa.
Il secondo anno di guerra un'epidemia di peste priva Atene del suo statista Pericle. Dopo la sua morte (429 a.C.) si affrontano nella città attica i fautori della guerra ad oltranza e quelli della pace e degli accordi con Sparta.
Tutte le contraddizioni del mondo greco esplodono contemporaneamente. Nel 411 a.C., in un'Atene logorata dalla tensione e dalla delusione, è tentato un colpo di Stato per abbattere la democrazia e tornare all'oligarchia. La costituzione oligarchica imposta e limita i diritti politici in base al censo, ma ha vita brevissima.
A rendere ancora più grave la situazione nell'ultima fase del conflitto intervengono a fianco di Sparta i Persiani, i quali riescono così a riaffacciarsi sul Mar Egeo.
Nel 404 a.C. Atene, abbandonata da tutti gli alleati, dopo aver profuso tutte le sue energie è costretta alla resa. Le condizioni di pace imposte da Sparta sono tali da porre fine alla sua potenza politica: Atene deve rinunciare all'impero, demolire le Lunghe Mura e le fortificazioni del Pireo, consegnare tutte le navi tranne dodici, riammettere i fuoriusciti oligarchici e allearsi con Sparta.

DECADENZA DELLA POLIS

L'emergere dei grandi Stati territoriali, l'affermarsi della figura del politico di professione, il ricorso a milizie mercenarie sono alcuni tratti caratteristici della crisi in cui versa la polis nel IV secolo a.C. Anche se l'assetto istituzionale rimane in apparenza stabile, cambia radicalmente il rapporto tra la città e l'individuo, che non si sente più parte di una comunità unita da vincoli indissolubili di natura politica, culturale, etica e religiosa.
Di fronte alla crisi delle istituzioni tradizionali, l'uomo greco si pone degli interrogativi. L'oratore Isocrate, contro gli eccessi della democrazia, propone l'ideale di una democrazia moderata, in cui l'Areopago eserciti di nuovo una funzione preponderante. Di fronte agli antagonismi tra le città, aspira ad una unione panellenica che preveda l'alleanza con Sparta con precise indicazioni anti-persiane. L'oratore Demostene assurge a difensore della democrazia ateniese contro Filippo di Macedonia.
La crisi della polis ripropone il problema di una formazione della classe politica, che Isocrate vede formata sulla base della retorica (= «arte del dire»), mentre il filosofo Platone, che comincia la sua speculazione filosofica da questi problemi, considera indispensabile lo studio della filosofia come materia formativa del buon dirigente politico, arrivando a teorizzare una città ideale guidata dai filosofi.
Al declino della polis si accompagna uno stato di guerra quasi ininterrotto dal 431 al 338 a.C., causato dal fallimento dei tentativi di egemonia imperialista.
Sparta, succeduta ad Atene nel dominio di una vasta parte del mondo greco, esercitò un'egemonia non meno dura di quella ateniese: impose alle poleis greche di accogliere guarnigioni e governatori militari, di versare un tributo, di introdurre una costituzione oligarchica, e si rivelò incapace di soddisfare le loro complesse esigenze. L'impero spartano, sostenuto inizialmente dall'alleanza con la Persia, che recuperò la sua sovranità sulle poleis greche dell'Asia Minore, fu abbattuto definitivamente nel 371 a.C. nella battaglia di Leuttra, dalle truppe tebane.
A Sparta successe la rivale Tebe, che per circa un decennio cercò di svolgere il ruolo di Sparta per terra e, per un periodo ancora più breve, quello di Atene per mare. L'egemonia tebana non fu tanto fondata su solide basi economiche, politiche e culturali, quanto piuttosto sull'esito fortunato delle iniziative del generale tebano Epaminonda, che inaugurò una tattica molto più evoluta del consueto scontro di due eserciti: l'ordine obliquo con attacco sul fianco. Nella battaglia di Mantinea del 362 a.C. la morte di Epaminonda mise fine all'ascesa tebana.
Una nuova potenza apparve all'orizzonte, la Macedonia, Paese di stirpe greca considerato tradizionalmente arretrato e inoffensivo. Filippo II di Macedonia provvide a riorganizzare l'esercito, creando la falange macedone, una formazione compatta di fanti disposti su file, armati di una lunga lancia detta sarissa, e condusse un'accorta politica di espansione verso oriente e il Mar Egeo settentrionale. Intuendo che la debolezza delle poleis greche stava tutta nel cronico municipalismo e nei continui conflitti fra città e città, Filippo seppe abilmente inserirsi nel gioco come alleato di questo o di quel contendente e diventò nel giro di un ventennio (359-336 a.C.) l'arbitro del mondo greco.

FAMIGLIA, EDUCAZIONE, SOCIETÀ

Nel mondo greco la famiglia è un'istituzione sociale che comprende non solo i coniugi e i loro figli, ma tutti i discendenti di un antenato comune. Alla base della sua esistenza c'è il possesso di terre che, pur appartenendo alla famiglia nel suo insieme, sono amministrate dal capo famiglia che ne divide le rendite tra i membri.
La società greca è dominata dagli uomini. Nella classificazione degli uomini di Aristotele il vero uomo è l'animale politico per natura e la sua figura nasce e si definisce nell'opposizione a figure che gli sono complementari: la bestia, il barbaro, lo schiavo, la donna.
Mentre gli uomini si occupano delle attività produttive, il compito delle donne è di assicurare la trasmissione del patrimonio per mezzo della procreazione di figli legittimi, e di permetterne la conservazione con una amministrazione oculata degli affari domestici.
In tutto il territorio greco per cinque secoli di storia (VIII-III secolo a.C.) alle donne sono riservate le stesse mansioni: filare la lana, preparare i pasti, distribuire il lavoro alle ancelle; mentre le virtù femminili per eccellenza sono il silenzio, la sottomissione, la pudicizia.
Le case del ceto medio riproducono anche da un punto di vista architettonico la distinzione tra i sessi: la zona più interna della casa, il gineceo, è riservata alle donne (signore, figlie, schiave), mentre i locali più aperti verso l'esterno sono destinati agli uomini che vi ricevono gli amici e vi conducono la loro vita sociale.
La vita sociale per l'uomo greco, in particolare ateniese, si svolgeva soprattutto fuori della famiglia e della casa. La presenza degli schiavi (un ateniese benestante ne possiede una cinquantina, mentre il cittadino medio può possederne una decina) consentiva molto tempo libero dalle occupazioni lavorative. Molti erano i luoghi in cui si svolgeva la vita sociale degli uomini: essi si incontravano nell'agorà dove si discuteva di affari, di politica e di filosofia, nell'assemblea popolare in cui si decidevano le questioni cittadine, nei teatri dove si elaborava e trasmetteva la cultura collettiva della polis, nelle palestre in cui le attività sportive erano anche funzionali all'addestramento militare.
Le donne, che non disponevano di alcun diritto politico o giuridico, come gli schiavi, vivevano confinate nel gineceo e varcavano di rado la soglia di casa per lo più in occasione di feste religiose.
La mancanza di vita sociale limitava per le donne anche gli stimoli intellettuali. Nell'Atene del V secolo non si conosce nulla di paragonabile a quanto avvenne nel VI secolo a.C. nell'isola di Lesbo dove la poetessa Saffo fu promotrice dell'educazione amorosa, poetica e cultuale di giovinette di elevata condizione, radunate in una specie di circolo.
L'unica eccezione ateniese al regime di emarginazione culturale e sociale nei confronti delle donne era rappresentata dalle etere cioè dalle cortigiane che potevano uscire liberamente, partecipare ai banchetti con gli uomini e, se erano compagne di uomini illustri, «tenere salotto». La più famosa di esse, Aspasia, compagna di Pericle, di origine straniera, secondo il biografo Plutarco «dominava gli uomini di Stato e ispirò ai filosofi una grande e sincera ammirazione».
Uno statuto del tutto particolare regolava la vita delle donne spartane che ricevevano dallo stato un'educazione simile a quella degli uomini e godevano di una libertà eccezionale nel mondo greco; esse non erano relegate negli appartamenti femminili, governavano la casa con pieni poteri e negli affari pubblici esprimevano liberamente il loro parere sulle questioni più importanti, al punto che Aristotele, avvezzo al costume familiare ateniese, le accusò di dissolutezza. Anche i doveri coniugali delle spartane erano ridotti; del resto i mariti pranzavano alle tavole comuni e trascorrevano la maggior parte del tempo nelle leschai (= «case per uomini»), quando non adempivano ai doveri militari.
Sparta è, al pari di altre comunità guerriere, l'esempio di una società maschile in cui gli uomini sono assorbiti quasi esclusivamente dal mestiere della guerra, mentre la condizione della terra e i lavori manuali sono riservati ad un ordine inferiore (gli Iloti). In una società così organizzata il matrimonio non implica alcun legame permanente tra uomo e donna.
Al contrario ad Atene il matrimonio costituisce il fondamento stesso dello status delle donne. Di questo matrimonio la giovane non è responsabile poiché l'accordo per il quale essa entra nella casa dello sposo viene combinato dal suo tutore, padre o fratello che sia. La dote, consistente in oggetti preziosi o monete o talora da un bene immobile, costituisce la dimostrazione della legittimità del matrimonio. In caso di scioglimento dello stesso (il marito può ripudiare la moglie) la dote deve essere restituita alla famiglia di origine.
Anche nel campo dell'educazione gli stili di vita di Sparta e di Atene si contrappongono nettamente.
A causa del loro numero esiguo gli spartiati discendenti dei conquistatori della Laconia erano costretti, per assicurarsi la continuità del loro dominio su una popolazione ostile, a forgiare i loro figli fin da bambini al coraggio e alle arti marziali. Mentre le giovinette di Atene vivevano recluse, quelle di Sparta praticavano molti sport (lotta, corsa, lancio del disco e del giavellotto) e si abituavano a mostrarsi nude in pubblico. Si forgiavano in questo modo madri di famiglia robuste e vigorose destinate a dare a Sparta figli sani e forti. Per i neonati deformi o con tare fisiche era abituale e obbligatoria la soppressione.
A Sparta il maschio a sette anni era affidato allo Stato, al quale sarebbe appartenuto fino alla morte. Il rituale educativo spartano prevedeva la divisione in classi di età e la presenza di riti di passaggio da una classe all'altra. L'educazione dei giovani spartani consisteva nell'imparare ad ubbidire, sopportare la fatica e vincere nella lotta. Per questo essi dovevano camminare scalzi, ricevevano un solo mantello per tutto l'anno, si bagnavano e ungevano d'olio molto raramente, erano frustati crudelmente per qualsiasi colpa e nei pasti comuni non era dato loro cibo sufficiente perché cercassero di rubare viveri e apprendessero così l'ardire e l'astuzia.
Ad Atene, invece, dove fino a tarda età non esistettero scuole regolari, il padre di famiglia poteva liberamente educare i suoi figli da sé oppure affidarli ad altri fino all'età di 18 anni, quando i giovani divenivano cittadini e iniziavano la vita civica.
Per il giovane ateniese una parte dell'istruzione era legata alla vita sociale. Il figlio dell'artigiano imparava dal padre in bottega il suo mestiere; gli apprendisti di architetti, pittori, scultori, medici fruivano di insegnamento professionale diretto; i figli dei nobili avevano uno schiavo insegnante che li avviava all'educazione letteraria, ma tutti quanti si formavano soprattutto nei luoghi in cui si svolgeva la vita sociale.
La paidéia greca, cioè l'educazione dei giovani, aveva come fine la formazione di uomini belli e forti nel fisico ed equilibrati nella mente. L'educazione delle classi superiori prevedeva studi di lettere, musica ed esercizi ginnici. Perno degli studi letterari era Omero, considerato dai Greci l'educatore per eccellenza, poiché insegnava tutto ciò che un uomo degno di questo nome doveva conoscere in campo religioso, politico e morale. Di origine antichissima era lo studio della musica (il termine musica è connesso con le Muse, le dee che presiedevano a tutte le attività artistiche e intellettuali dell'uomo). L'apprendimento del canto e degli strumenti musicali era considerato la base di ogni educazione liberale. Antico era pure il gusto dei Greci per gli esercizi fisici. Le caratteristiche tipiche della ginnastica greca erano la nudità completa dell'atleta (ginnastica deriva da gymnos = «nudo») e l'abitudine di ungersi di olio. Lo sport per eccellenza era la lotta che aveva dato il suo nome alla palestra (da palé = «lotta»).
Nella seconda metà del V secolo a.C. in materia di educazione si inserisce l'attività dei Sofisti. Maestri di dialettica, conferenzieri itineranti che tenevano lezioni a pagamento, essi insegnavano sotto il nome generale di filosofia tutto il sapere del tempo. Per essi anche l'areté, la virtus dei Latini, cioè l'insieme delle qualità che fanno l'uomo eccellente poteva essere insegnata; per questo i Sofisti furono denigrati e derisi dal teatro antico.
Ma in una società dove occorre che i dirigenti politici acquistino il talento necessario per parlare innanzi alle assemblee, la sofistica non è altro che l'insegnamento dei mezzi necessari per parlare in pubblico e per persuadere della bontà delle proprie tesi.
L'insegnamento della retorica (arte di parlare in modo efficace ed ornato) e della filosofia diventa dunque necessario per preparare uomini di governo in una società che va moltiplicando e variando le sue esigenze intellettuali.
Il livello di vita della famiglia greca è nel complesso modesto. Neppure le maggiori famiglie si permettono lussi paragonabili a quelli conosciuti più tardi dalle ricche famiglie romane. La morale prevalente nel regime democratico impone un modo di vivere sobrio e modesto e condanna la vita troppo comoda e lussuosa dei ricchi.
La maggior parte della popolazione per tutto l'arco della storia delle città greche vive a livello di sopravvivenza. Il cibo è scarso e povero (pane, olive, formaggi e qualche ortaggio sono gli alimenti base), le abitazioni anguste e mal illuminate, i livelli igienici minimi. Ciò nonostante, salvo periodi di carestie, la sopravvivenza alimentare e la casa erano garantite a tutti i cittadini.
Quando in alcune città greche, con lo sviluppo dei traffici marittimi e delle iniziative commerciali, si crearono patrimoni costituiti da beni mobili in grado di competere con quelli costituiti da beni immobili, la potenza economica delle proprietà terriera diminuì e con essa anche il prestigio delle famiglie che da generazioni la possedevano. A queste si affiancarono allora nuove generazioni di commercianti e imprenditori di traffici marittimi.
L'agricoltura e i mestieri manifatturieri e artigiani erano le forme di lavoro indipendente più apprezzate nel mondo greco, dove nulla era disprezzato quanto il lavoro dipendente da un padrone. Godevano di scarsa stima coloro che esercitavano professioni intellettuali dietro compenso, vale a dire medici, insegnanti di retorica e filosofia, indovini, astronomi. Solo alla fine del V secolo a.C. in Atene si iniziò un movimento ideologico grazie al quale gli intellettuali sostennero e difesero la dignità e la moralità del loro lavoro, cosicché la classe dirigente venne largamente composta di elementi intellettuali, soprattutto oratori e retori.
Coppa del V sec. con scene di vita scolastica ad Atene


AGONISMO E GIOCHI PANELLENICI

Lo spirito agonistico trovò nell'antica Grecia forme di espressione particolarmente ricche e suggestive. Le dimensioni e la struttura stessa delle comunità greche favorivano la tendenza alla competizione; non solo nessuna di esse fu mai tanto forte da assoggettare in maniera definitiva tutte le altre, ma all'interno delle poleis stesse nessun gruppo sociale poté mai considerarsi egemone in senso assoluto.
Che il gusto per la competizione e con esso lo spirito di emulazione caratterizzassero la mentalità e la società greca fin dalle origini lo dimostrano i versi del poeta contadino Esiodo quando dice che «il vasaio porta invidia al vasaio, il fabbro ce l'ha con il fabbro e il mendico ha gelosia del mendico e il cantore del cantore»; o quando distingue tra le due divinità che personificano la Contesa (Eris), quella che «suscita la guerra e la rissa, e non v'è mortale che l'ami» da quella che invece è «benefica ai mortali», per la quale «il vicino emula il vicino che è sollecito al guadagno».
La concezione agonistica dell'esistenza è sostenuta dal concetto greco di aretè (= «virtù»). Il termine non si riferisce alla vita morale dell'individuo, ma indica nobiltà, capacità, successo, imponenza. L'aretè è propria di individui che si distinguono come singoli, ma che si adattano anche al giudizio della comunità, dal momento che è questa che dà al singolo la conferma del suo valore. La ricompensa dell'aretè è, fino alla più tarda età classica, la gloria e l'onore.
Un simile ideale, già presente nei poemi omerici, si realizza nell'agòn (= «competizione», da cui agonismo), che in guerra si esprime nel duello e in pace nella gara sportiva. Prodotto di una società aristocratica, questo ideale col tempo si democratizzò, coinvolse l'intera cittadinanza, divenne amor di patria, ma tutta la vita dell'uomo greco in ogni suo aspetto rimase sotto l'insegna dell'agonismo. Nei tribunali le parti in causa gareggiano per ottenere un verdetto favorevole; in teatro gli attori si chiamano protagonista, deuteragonista, tritagonista e anche loro gareggiano in una lotta che è al tempo stesso esposizione di concetti antitetici e gara di abilità. Anche le gare atletiche fanno parte di questo quadro.
I giochi panellenici si svolgevano a scadenze fisse (ogni quattro o due anni), erano connessi a feste religiose ed erano uno dei rari momenti in cui i Greci deposte la armi in virtù di una tregua sacra, riscoprivano di appartenere ad un'unica comunità per lingua, religione e cultura. A Corinto sull'Istmo si svolgevano i giochi Istmici, a Delfi quelli Pitici, in Argolide, regione del Peloponneso, i giochi Nemei, a Olimpia nel Peloponneso venivano istituiti i giochi Olimpici. La tradizione mitica collega questi ultimi al mito di Pelope e Ippodamia, secondo il quale il primo avrebbe dovuto vincere in gara il padre di Ippodamia, Enomao, per averla in sposa, andando incontro alla morte in caso di fallimento. È possibile vedere in ciò un riflesso dei riti di iniziazione che ratificavano l'uscita dall'adolescenza dei membri della comunità. In età storica il legame con la religione permane, ma prevale l'aspetto agonistico.
Ai giochi erano ammessi tutti i cittadini del mondo greco con esclusione delle donne sposate, degli schiavi e dei barbari.
Le gare classiche erano la corsa, la lotta, il pugilato, il pancrazio (lotta e pugilato), il pentathlon (gara composta da cinque specialità: corsa, salto, lotta, lancio del disco e del giavellotto), la corsa con le quadrighe, le corse di carri trainati da muli, la corsa a cavallo e quella con l'armatura. Da esclusivamente sportive le gare divennero in seguito anche letterarie con prove di poesia e di musica. Gli atleti furono inizialmente dilettanti, poi per la necessità di continui allenamenti divennero semiprofessionisti con sovvenzioni da parte delle città che acquistavano prestigio per i successi di un loro campione.
Celebrati per la prima volta secondo la tradizione nel 776 a.C. e ripetuti ogni quattro anni, i giochi olimpici furono usati come sistema di datazione fino alla tarda antichità. Per designare un anno si specificava quale posto occupasse in una determinata Olimpiade, cioè nell'intervallo di quattro anni tra una festa e l'altra.
Le vittorie olimpiche del resto avevano una risonanza tale da essere usate come mezzo di propaganda politica: di qui la frequente partecipazione dei tiranni soprattutto alle prestigiose gare ippiche. I vincitori erano onorati da tutti e cantati da poeti come Simonide e Pindaro; ricevevano in premio una corona di ulivo, acquistavano fama di semidei e potevano giovarsene anche a fini politici, come fece Alcibiade, ispiratore della spedizione ateniese in Sicilia del 415-413 a.C. e vincitore delle Olimpiadi del 416 a.C.
Ogni quattro anni in onore di Apollo Pizio si celebravano a Delfi i giochi Pitici organizzati dagli anfizioni; le gare erano musicali e ginniche vi avevano parte anche le orazioni di retori e le gare di poeti; e al vincitore andava una corona di alloro.
I giochi Istmici e Nemei avevano luogo ogni due anni. I primi erano celebrati in onore di Poseidone nel suo santuario sull'istmo di Corinto e comprendevano gare atletiche, ippiche, ma anche competizioni di musica, recitazione, pittura. Dopo le Olimpiadi erano i giochi più importanti. Nel 480 a.C. in occasione dei giochi Istmici i Greci concertarono il loro piano di guerra contro i Persiani. Nei giochi del 196 a.C. il console romano Tito Quinzio Flaminino proclamò la liberazione della Grecia dal giogo macedone.
I giochi nemei sacri a Zeus Nemeo si svolgevano nella pianura nemea in Argolide, dove Eracle avrebbe celebrato l'uccisione del leone Nemeo. La corona per i vincitori fu in un primo momento di oleastro, in seguito, come per gli Istmici, fu mutata in una di sedano.

IL TEATRO

La grande stagione del teatro greco classico si colloca nell'ambito di istituzioni religiose, come le feste Dionisiache introdotte secondo la tradizione da Pisistrato, che riportano l'attività teatrale ad una probabile origine cultuale. Le feste legate al culto di Dioniso sono la trasposizione in epoca storica degli antichi riti connessi con i cicli stagionali e con i culti della fecondità, in cui si svolgevano processioni e canti da cui il teatro trasse origine.
In occasione delle feste Dionisiache si bandivano concorsi tragici in cui tre tragediografi presentavano tre tragedie e un dramma satiresco (farsa con elementi mitici) e si contendevano la palma della vittoria. Il carattere ufficiale di queste manifestazioni si deduce dal fatto che i cittadini più ricchi erano obbligati a sovvenzionare l'allestimento di un coro (questa liturgia si chiamava «coregia»), mentre i meno abbienti ricevevano un'indennità (obolo) per poter partecipare come spettatori.
Argomento del teatro è il mito, il cui repertorio di base è costituito da Omero e dal ciclo epico. Il carattere didattico della tragedia si manifesta nella rappresentazione attraverso personaggi mitici, o più raramente storici, di sentimenti contrapposti atti a suscitare nello spettatore prese di posizione nette a favore dell'una o dell'altra tesi. Il risultato che il tragediografo si propone di ottenere è la catarsi, ossia la «purificazione» dello spettatore attraverso la compartecipazione ai casi rappresentati sulla scena. Nel V secolo il teatro attraversa un periodo d'oro. Il primo grande tragico Eschilo (525/4-456/5 a.C.) si propone di discutere nelle sue opere temi complessi e tra loro intrecciati; fra cui quelli delle vicende istituzionali della polis: il conflitto tra due religiosità, quella mediterranea e quella indoeuropea, il rapporto tra l'agire del singolo e le colpe della stirpe, che non limitano la libertà e la responsabilità umane, il tema del dolore e della giustizia divina, la storia della società umana e delle sue strutture, segnatamente delle istituzioni di Atene.
Sofocle (497-406 a.C.) pone al centro dei suoi interessi il problema dell'uomo e del suo comportamento nei confronti degli dei, dei suoi simili e di se stesso e il rapporto tra la legge morale e le istituzioni dello Stato. L'essenza della sua tragicità consiste nel riconoscere la difficoltà o, più spesso, l'impossibilità di conciliare le leggi non scritte con la legalità ufficiale. Egli ci presenta queste tematiche incarnate da grandi personaggi che spiccano per la loro individualità, la quale d'altra parte emerge proprio nel momento della loro sconfitta.
L'opera di Euripide (480-406 a.C.) riflette un momento di crisi della storia della polis, segnata dalle vicende drammatiche della guerra del Peloponneso. Polemico e critico nei confronti della realtà politica dell'Atene del suo tempo, il poeta si rivolge al mito rielaborandolo liberamente, introduce i sentimenti e le passioni dell'uomo, in un quadro pessimistico della vita determinata dal caso in cui le divinità non coprono più tutti i valori. Non sono escluse le implicazioni filosofiche dei problemi posti dalla vita e dalla società affrontati in digressioni intellettualistiche: sulla fede degli dei, sulla superiorità della democrazia rispetto alla tirannide.

ALESSANDRO MAGNO

L'eredità di Filippo II fu raccolta dal figlio Alessandro. Schiacciato ogni tentativo di rivolta nel mondo greco, Alessandro, forte della sua genialità militare e delle sue truppe, intraprese una politica antipersiana. Dopo la vittoriosa battaglia al fiume Granico nel 334 a.C. cacciò dalle città greche dell'Asia Minore gli oligarchi che le controllavano in nome dei Persiani. Incontrò resistenze solo a Mileto e ad Alicarnasso mentre quasi ovunque fu accolto come un liberatore. Continuando la propria avanzata ebbe sotto controllo tutta l'Asia Minore e con la vittoria di Isso nel 333 a.C. si impadronì delle città fenicie e dell'Egitto. Qui fu accolto favorevolmente dagli Egiziani che lo incoronarono con le due corone, simbolo del potere su tutto il territorio, l'Alto e il Basso Nilo. In una posizione felice, sul delta del fiume, fondò la città di Alessandria destinata a diventare il principale centro della cultura ellenistica. In Egitto Alessandro cominciò ad attuare il riordinamento dell'amministrazione dello Stato secondo uno schema che fu successivamente esteso a tutto l'impero: organizzò una potente ed efficiente burocrazia incaricata dell'amministrazione civile e separata da quella militare e da quella finanziaria. Alessandro si mosse poi verso la Mesopotamia dove avvenne lo scontro definitivo col re persiano Dario III. A Gaugamela nel 331 a.C. i Persiani furono definitivamente sconfitti.
Durante le sue spedizioni Alessandro si preoccupò sempre di non mettersi in contrasto con le popolazioni conquistate. Il suo scopo era di trasformare le conquiste militari in legami di unità politica tra i diversi popoli; per questo favorì i matrimoni misti ed accolse abitudini e usi dei popoli vinti.
Quando Dario III scomparve, ucciso da un governatore persiano, Alessandro si considerò il legittimo successore degli imperatori persiani: cominciò ad affidare il comando civile delle varie regioni a nobili locali, arruolò tra le sue truppe soldati persiani e delle altre aree conquistate. Tra il 327 e il 325 a.C. tentò una spedizione verso l'India che lo condusse in regioni mai viste prima dagli Europei, a contatto con civiltà diversissime. L'iniziativa fallì per l'opposizione dei soldati che si sentivano troppo lontani dalle basi di partenza; tornato in Occidente, Alessandro iniziò un'opera di controllo del grande impero che aveva messo assieme. Morì nel 323 a.C. a Babilonia mentre stava facendo preparare un'immensa flotta che avrebbe dovuto essere impiegata nella esplorazione e nella conquista della penisola arabica.
Scomparso Alessandro, i suoi generali si contesero la supremazia sull'impero. Dopo un quarantennio di conflitti fra i Diadochi (= «successori»), la situazione si stabilizzò con la costituzione di tre vasti reami: il regno d'Egitto (sotto la dinastia dei Tolomei, che sopravvisse fino al 30 a.C.); l'Asia sotto i Seleucidi fino al 63 a.C.; la Macedonia sotto gli Antigonidi fino alla battaglia di Pidna del 168 a.C.
L'espansione del regno di Alessandro Magno

L'ELLENISMO

Con il termine «Ellenismo» si intende il periodo che va dal IV secolo a.C. al VI secolo d.C., caratterizzato dalla diffusione della lingua e della cultura greca in tutto il mondo allora conosciuto, l'oikoumène (= «la terra abitata»), corrispondente per i Greci al bacino del Mediterraneo e al Vicino Oriente.
L'ellenismo ha come termine cronologico le date del 335 a.C. (includendo anche il periodo di Alessandro Magno) e del 31 a.C. data della battaglia di Azio e assoggettamento dell'Egitto ai Romani. C'è chi considera come data conclusiva il 529 d.C. anno in cui l'imperatore Giustiniano chiude la scuola neoplatonica di Atene, atto esteriore che sancisce la conclusione della civiltà classica. In un primo tempo il centro gravita verso oriente, ad Alessandria d'Egitto, in seguito si sposta ad occidente a Roma, che diviene anche il punto di raccolta di molti letterati del tempo.
La diffusione della cultura greca nell'area mediterranea è legata a particolari contingenze storiche. Alessandro Magno, conquistando l'Oriente unifica anche se per breve tempo un territorio vastissimo, cercando di attuare una fusione tra conquistatori e conquistati (egli stesso sposa una principessa barbara, Rossane). Alla sua morte nei vari regni i monarchi macedoni continuano a circondarsi di una cerchia di intellettuali di formazione culturale greca. Veicolo di diffusione della cultura greca sono dunque le truppe e i funzionari di Alessandro.
Anche se le tradizioni culturali e linguistiche proprie delle varie regioni non furono perdute, fu il greco a divenire lo strumento di comunicazione per tutti i popoli, la lingua comune (koiné), costituita essenzialmente dal dialetto attico semplificato nelle sue strutture morfosintattiche e aperto a termini e locuzioni di altri dialetti e delle lingue orientali.
Da un punto di vista politico il più importante aspetto del periodo ellenistico è la scomparsa della polis, fatto che condiziona tutta la vita sociale e spirituale del tempo. Al posto della polis, che conserva solo qualche funzione militare ed economica, subentrano le grandi monarchie territoriali, divise fra loro da confini geografici, non da caratteri etnici o culturali. Esse dispongono di eserciti permanenti e di una burocrazia organizzata, il che significa che il cittadino non partecipa più alla vita della città, né come soldato, né come uomo politico. La vita politica tende a diventare un mestiere. Abbattute le frontiere cittadine negli Stati ellenistici ogni abitante può diventare cittadino di una qualsiasi altra città trasferendo semplicemente la sua residenza. Ne consegue che scompaiono le differenze tra cittadini e stranieri, mentre restano naturalmente e talvolta si aggravano quelle tra liberi e schiavi, tra ricchi e poveri, tra potenti e umili.
La società classica presentava un mondo di valori in certo senso precostituito cui l'individuo doveva adeguarsi, mentre quella ellenistica è una società aperta in cui gli schemi di giudizio, i valori sono lasciati ad una scelta razionale dell'individuo. Paradossalmente quindi, pur avendo un governo assolutistico, la società ellenistica è più libera di quella classica. La società ateniese, così democratica, considerava l'obbedienza alla polis un valore ovvio i cui principi non erano messi in discussione.
La società ellenistica è invece una società permissiva in cui possono convivere atei, credenti, mistici, saggi, scienziati.
A differenza dei valori collettivi del periodo classico, ora la società è basata sull'individualismo e si indirizza verso nuovi valori: l'arte per l'arte, il sentimento e la fantasia invece dell'ideale classico di razionalità, il sapere scientifico, la fede religiosa aperta ai culti orientali che riempiono la vita soprattutto a livello individuale. Cambia anche la condizione sociale della donna per effetto di una generale emancipazione estera ai diversi livelli della società; la donna esercita ora una profonda influenza anche nella vita politica.
Nel crollo dei valori tradizionali la cultura diventa autonoma da ogni legame diretto con la vita politica, è un valore fine a se stesso. Si afferma una concezione elitaria dell'arte. L'intellettuale non è più al servizio della comunità cittadina non si rivolge ad un grande pubblico, ma ad una ristretta cerchia di dotti capaci di comprendere la perfezione stilistica, filologica ed erudita della sua produzione.
Si assiste alla formazione di grandi organizzazioni culturali (biblioteche, centri di ricerca) curate per la prima volta dallo Stato. Si tratta di strutture sovvenzionate da monarchi che si dedicano a questo mecenatismo per ragioni di prestigio e che comporta il rischio di servilismo per la classe intellettuale che vi partecipa. Mentre in precedenza le biblioteche erano proprietà di privati e possederle voleva dire essere ricchissimi, in questo periodo vengono fondate dai monarchi biblioteche pubbliche che accolgono i classici del passato messi a disposizione degli studiosi. La più nota è la biblioteca di Alessandria, che sotto Tolomeo II Filadelfo (285-246 a.C.) raggiunse i 500.000 volumi che abbracciavano tutto lo scibile del tempo.
Il volume era costituito da strisce di papiro unite in senso verticale e da altre in senso orizzontale pressate insieme. Si scriveva sul recto, mentre l'operazione era più difficile sul verso. Più tardi venne adottata la tecnica del codex, che invece di essere costituito da una striscia continua arrotolata, era una specie di grosso quaderno. Il materiale era però altamente infiammabile e la biblioteca di Alessandria nel tempo fu distrutta a causa di successivi incendi (al tempo di Cesare, degli Arabi).
Nel Museo, associazione consacrata alle Muse, annesso alla biblioteca, venivano ospitati i dotti impegnati nelle ricerche. Il loro lavoro consisteva nell'edizione critica delle opere. Con i manoscritti e le diverse copie di uno stesso testo che avevano a disposizione cercavano di ricostruire e fissare il testo originario; quando si trovavano di fronte a difficoltà di interpretazione (parole diverse, parti aggiunte o mancanti) compilavano delle note scritte dette scolii. Tutto questo in base al principio che per comprendere bene il pensiero di un autore occorresse possedere il testo esatto delle sue opere. La nascita della filologia (disciplina che ricostruisce e interpreta scientificamente testi letterari e documenti linguistici) e la diffusione delle biblioteche porta ad alcune considerazioni: in un periodo di guerre distruttrici la raccolta delle opere letterarie significa che la cultura era intesa come patrimonio perenne da tramandare ai posteri. Si era sviluppata l'idea che la cultura classica fosse in un certo senso ormai conclusa e quindi fosse possibile fare il punto su di essa, delinearne le caratteristiche, descriverne la fisionomia, fissarne i contenuti culturali tramandati.
Proprio in questo periodo nasce l'idea di classicismo, vale a dire il concetto dell'esistenza per ogni genere letterario di scrittori che hanno toccato il vertice massimo raggiungibile dall'artista; il fine dei letterati diventa quindi l'imitazione di questi vertici, il tentativo di arrivare ai loro stessi livelli, dal momento che è impossibile superarli.